Archivi del giorno: ottobre 24, 2009

l’Ideatore di MAIDIRERISTORANTE si racconta

maidireistornateIncontro GianMaria Le Mura, ideatore del ormai famoso ristorante interattivo MAIDIRERISTORANTE, nella sua casa in Giarre tra un bicchiere freddo di latte di mandorla e mille fotografie di personaggi famosi che la sua cucina elegante e stravangate a fatto assagiare, personaggi si spicco, da Bonolis a Pippo Baudo passando per il Bagaglino, il suo ufficio mi sembra un museo della fotografia.

Parlavo nel forum del gambero rosso di Davide Scabin con una persona che non ricordo quale. Cosi mi disse dopo aver chiaccherato della mia idea interattiva: accadeva nel 2002.: Mi disse: Gianmaria se un giorno fai questo tipo di locale touch screen lo chiamerei Maidireristorante. L’indomani prenotai i domini e cominciai a fare il sito con questo nome finalizzato affiche un giorno avrei fatto questo locale.

Alla domanda perche’?

GianMaria

Maidireristornate il Patrone chef Gian MariaLe  Mura risponde perche ‘ do un etichetta che non hanno tutti i ristoranti sia di immagine che di gusto,Maidireristorante anche perche tutti  i ristoranti hanno appiattito il gusto io lo esaltero’.

La tua e’ una sfida?

riponde con una risposta secca, NO! E’ UNA CERTEZZA!

Dopo una lunga chiacchierata, GianMaria ci ha portato in giro per Giarre, e sinceramente non mi aspettavo una bella cittadina ma sono rimasto colpito dal porto di RIPOSTO, moderno nuovo ma antico nello stesso tempo, la Sicilia non e’ poi cosi obsoleta come spesso e molti la dipingono, e’ certamente una regione che puo’ dare molto allo stivale, ma sopratutto ha molti personaggi che faanno ancora parlare di questa terra di sapori.

grazie GianMaria per la tua cortesia e per le cassatine, Ottime!

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Italiani all’estero, Grandi Chef a Hong Kong per i 20 anni di enogastronomia italiana di qualità in Asia

ita
Massimo Bottura, Marco Sacco, Claudio Sadler, Giovanni Grasso, Ivan Musoni, Giacomo Gallina, Matteo Scibilia e altri talentuosi cuochi italiani a un vertice di cucina italiana senza precedenti

Si terrà dal 20 al 25 ottobre prossimi a Hong Kong il Summit della Cucina Italiana in Asia. Per una settimana la metropoli cinese avrà uno straordinario sapore italiano. Quindici grandi cuochi italiani provenienti dall’Italia e da altre capitali asiatiche, saranno ospiti dei dieci migliori ristoranti italiani della città. Con i cuochi arriveranno prodotti dell’eccellenza enogastronomica di tutta Italia, a cominciare da quelli della Regione Puglia, che proprio al Summit presenterà il suo programma “Tipicamente Puglia”.

Venti anni fa, il primo ristorante italiano di qualità aprì ad Hong Kong, il Grissini nel Grand Hyatt Hotel di Wan Chai e a suggerire il nome non a caso fu Angelo Gaja. “Fu l’inizio di un’era per tutta l’Asia, dove ben presto iniziarono ad arrivare giovani e talentuosi cuochi dall’Italia insieme a prodotti made in Italy di qualità”, dice Rosario Scarpato, giornalista e produttore televisivo, direttore del Summit. Da allora la cucina italiana è la più amata in Asia dopo le cucine locali e Hong Kong è la porta all’Asia per l’alta enogastronomia italiana.

Tra i cuochi presenti a Hong Kong ci saranno Massimo Bottura dell’Osteria Francescana di Modena, Guest Master Chef al Ristorante Grissini nel Grand Hyatt Hotel, Marco Sacco del Piccolo Lago di Mergozzo (Verbania) Guest Master Chef al Ristorante Va Bene, Claudio Sadler (Sadler, Milano), Giovanni Grasso de La Credenza (San Maurizio Canavese) al Ristorante Gaia, Ivan Musoni del Ca’ Vegia di Salice Terme (Pavia) al Ristorante Angelini nell’Hotel Shangri La Hotel. E ancora: Giacomo Gallina del Gold, Milano sarà Guest Master Chef al Sabatini nel Royal Garden Hotel mentre Antonio De Rosa e Domenico Maggi porteranno a Hong Kong gli inconfondibili sapori della Puglia. Matteo Scibilia (Osteria della Buona Condotta, Ornago) interverrà anche anche come Consigliere del Ministro della Cultura per la Cucina.

“Il Summit porta a Hong Kong la qualità e la vitalità della cucina italiana e alcune dele migliori intepretazioni che se ne fanno oggi nel mondo” dice Paolo Monti, Executive chef del Ristorante Gaia a Hong Kong e uno degli organizzatori dell’evento. Monti è il Moderatore del Forum GVCI, Gruppo Virtuale cuochi italiani, un network di oltre 900 professionisti della enogastronomia italiana, principalmente cuochi, che lavorano in oltre 70 paesi. Il Summit è promosso da www.itchefs-gvci.com, il sito del network GVCI di cui è presidente Mario Caramella, Executive Chef a Bali (Indonesia), uno dei pionieri della cucina italiana di qualità in Asia, anche lui presente Hong Kong. Negli anni Novanta, Caramella fu chef del Ristorante Mistral e del Grissini, dove, in occasione del Summit, tornerà a cucinare la cena di Gala che coincide con il ventesimo compleanno del locale. Con lui ci saranno altri due ex chef: Marco Avitabile, direttore delle operazioni culinarie della catena Hyatt Hotel in Asia, e Gabriele Colombo, il cuoco che aprì il Grissini, oggi executive chef a Saipan nelle isole della Mariana.

Il Summit rappresenta un’autentica novità, anche perché per la prima volta intervengono in un evento del genere cuochi italiani che lavorano con grande successo all’estero: Gianni Favro, chef patron del Ristorante Gianni’s Restaurant a Bangkok (Tailandia), Andrea Tranchero, Executive Chef del Ristorante Armani di Tokyo (Giappone) e Vincenzo Pezzilli, Executive Chef di Piazza Italia a Pechino, che saranno Guest Master Chef rispettivamente a Joia, Spasso e Osteria nel  Golden Mile Hotel.

Cene, degustazioni, classi magistrali di cucina, il Summit è ospitato dai migliori cuochi italiani di Hong Kong,  tutti associati al GVCI e talentuosi esponenti di una generazione che ha cambiato la storia della cucina italiana nel mondo.

Il mondo cambia cosi rapidamente che non ci accorgiamo che noi Italiani abbiamo contribuito in ogni angolo del Mondo a portare un pezzo di terra ITALIANA, avvolte forse anche senza accorgersene, e spesso con critiche e competizioni fuori da ogni logica culinaria. Spesso in questi ultimi tempi si e’ parlato dell’importanza del Made in Italy, cosa tanta cara a questo Gioverno, quello che io credo bisogna fare e solamente dare piu’ valore ai nostri connazionali, che e’ inutile dire che sono i veri nostri Ambasciatori, ma spesso c’e ne dimentichiamo, io credo, e so che su questo punto motli miei colleghi non la penseranno, che non c’e bisogno di fare fiere e/o festival della cucina c’e bisogno solo di un piccolo sforzo di maturita’ politica e culturale, dobbiamo esportare il modello tradizionale della cucina con tutti i suoi ingredienti, sfruttando la rete dei tanti cucochi italiani all’estero e dei tanti veri ristoranti italiani, valorizzandoli e fare delle leggi che permettono ai tanti ristoratori e cuochi di non mischiarsi tra la fitta folla di pseudo ristoranti Italiani.

Se io vado in un ristorante Cinese, Francese in ogni parte del mondo ci trovo il cuoco di quella nazionalita’, se io vado in un ristornate italiano all’estero il 50% dei casi, sono stato buono, trovo persone di altre nazionalita’, e pur vero che il mondo si e’ globalizzato, in Italia penso che siamo fr i primi posti, per la grande gioia di clandestini e non, a Napoli il sindaco paga gli affitti agli irregolari, c’e invece tra le fila del governo chi vuole ridurre gli anni della cittadinanza, e come facciamo a vendere e a garantire il prodotto italiano di qualita’ quando tra le mura della nostra patria non riusciamo a trovare nelle cucine dei cuoch Italiani?

Su questo argomento c’e’ ne sarebbe da scrivere e dibattere, ben vengano iniziative del genere ma cerchiamo anche di sederci tutti intorno ad un tavolo e discutiamo di un progetto comune sulla difesa del made in italy, non possiamo piu’ perdere terreno, in molti posti del mondo i ristornati italiani c’e solo il bel nome dell’insegna ma poi nulla di che.
Se penso che venti anni fa, nemmeno poi cosi tanti, a Hong Kong nasceva il primo ristorante Italiano questo mi fa ben sperare per me che tre anni fa ho messo su un complex italiano.

Auguri a GVCI anche per i suoi otto anni di vita online, grazie a Rosario e a Mario e a tutti coloro che collaborano con questa associazione, con un solo fine, portare la CUCINA ITALIANA TRADIZIONALE in giro per il mondo, io credo che loro sono il vero motore della promozione enogastronomica, e mi spiace che spesso chi deve se ne dimentica.
Emanuele Esposito – Italia chiama Italia

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Mediterraneans

evento2010

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Arabia Saudita

Arabia Saudita, se questo Pease non e’ strategico per l’Italia allora investiamo nel deserto.

Vorrei rispondere a coloro che credono che l’Arabia Saudita sia un paese fatto di deserto e petrolio, purtroppo e’ un Paese in crescita e ricca non solo di petrolio, ma e’ ricca di spirito e ha una cultura cosi diversa ma cosi vicina alla nostra, intendo quella Ialiana, non al caso questi signore quialche annetto fa ci regalarono delizie come la cassata, hanno dati i nomi a citta come Marsala e Palermo e altro, quindi me ne guarderei bene da dire che non e’ un Paese strategico su piano economico per l’Italia. Capisco benissimo la situazione economica che stiamo attraversando, ed e’ per questo motivo che come lo scemo del paese che vado in giro a dire che bisogna puntare sull’Arabia Saudita, se vogliamo uscire da questa crisi vincitori, e’ inutile continuare a puntare su Paesi come il Giappone o la Russia, non ci giovera’. Facendo un giro su interne e sul sito ICE ho trovato questi interessanti dati; L’Italia, in ambito UE, è per importanza (dopo la Germania) il secondo Paese fornitore dell’Arabia Saudita ed il primo partner in termini di interscambio. L’Italia esporta soprattutto macchine ed apparecchi meccanici, metallo e prodotti in metallo, macchine elettriche ed apparecchiature elettriche e di precisione, ma anche autoveicoli, articoli di abbigliamento, mobili e prodotti alimentari. Il dato dell’export della gioielleria si presume non rispecchi l’effettivo flusso in entrata; si ha notizia di un ingresso indiretto via Dubai. I dati ISTAT confermano che le nostre esportazioni verso l’Arabia Saudita hanno registrato, anche nei nel 2008, un andamento crescente, con un + 9,37% rispetto allo stesso periodo del precedente anno. In controtendenza, rispetto ai precedenti anni, crescono anche le nostre importazioni, costituite prevalentemente da prodotti petroliferi, totalizzando nel 2008 un incremento del + 16,69% . In relazione all’andamento dell’export italiano, la crescita più vistosa si è registrata, secondo i dati ISTAT, nel 2006, con un + 34,9% e successivamente nel 2007, con un + 25,3%. Aziende italiane di primaria importanza sono presenti per la realizzazione, in j.v. con partner locale, di importanti progetti nel settore petrolifero, petrolchimico, dell’impiantistica e dell’acciaio Sintesi grafica dell’export italiano verso l’Arabia Saudita (Elaborazione ICE dati ISTAT ) L’interscambio dell’ Italia-Arabia Saudita negli ultimi quattro anni I dati Istat 2005-2008 mettono in evidenza una crescita dinamica delle esportazioni italiane verso l’Arabia Saudita, totalizzando un incremento della DIM (media geometrica nei quattro anni 2005-2008) del +22,56%, pur se inferiore a quella del precedente quadriennio 2004-2007 (+27.2%). Nel 2006 e 2007, dopo le flessioni registrate nel 2003-2004, le esportazioni italiane verso l’Arabia Saudita sono aumentate significativamente, segnando rispettivamente un incremento di circa il 35% e di circa il 25%, rispetto ai precedenti anni di riferimento. Nel 2008 continua l’andamento positivo della crescita del nostro export, pur se con una dinamica più contenuta rispetto al 2007, pari al +9,37%. Le importazioni italiane, stabili tra il 2005 ed il 2006, hanno segnato una diminuzione di circa il 14% nel 2007, per poi registrare nuovamente un incremento nel 2008, pari al +16,69%. Nel 2008, l’interscambio dell’Italia-Arabia Saudita è cresciuto del 13,18%, pur se con un risultato peggiorativo, a causa dell’aumento del deficit commerciale del +55,5%. Elaborazione ICE dati ISTAT A fronte di questi dati io sinceramente non so come facciano a dire che questo paese non sia per l’Italia un Paese strategico. Trovo cio’ molto strano, trovo cio’ assurdo che l’Italia punti sui Paesi come la Russia, Giappone e USA, in questi paese dove la presenza Italiana e molta sentita, io credo che bisogna investire laddove i prodotti Italiani soffrono. Se non puntiamo su questo Paese rischireremmo di rimanere fuori dal bacino mediterraneo, e cio’ e’ alcquanto assurdo e inacettabile visto anche la storia culturale che ci accomuna. Quindi io mi rivolgo ai Signori increavattati governanti di studiare bene ed analizzare bene i dati di cui sopra, dati che non sono miei e sono bene consultabili sul sito ICE. L’Italia non puo’ permettersi il lusso di essere chiamata fuori in nquesta che e’ una competizioni non solo economica ma anche culturale, i prodotti di qualita’ e il turismo sono i nostri punti di forza e dobbiamo puntare su questo bacino, ricordiamoci che in quest’area non hanno subito nessun effetto economico dalla crisi in atto e che non finira’ certamente in un anno, e’ inutile che sbanderiamo la badiera della vittoria perche’ ci sono gli effetti collaterali da tener conto, e il piu’ delle volte sono piu’ dolorosi. Io non sono un Politico, e me ne guardo bene da esercitarlo, uno come me in politica darebbe solo fastidio alle lobby e ai poteri forti ( forti poi da vedere), sono una una persona attenta ai mutamenti del globo e percepisco da anni un aumento globale degli Arabi nel mondo, non dimentichiamoci che il 70% dell’economia mondiale e sotto il loro dominio ed e’ inutile negarlo, quindi ho c’e’ li facciamo amici e ci spazzeranno via come formiche al primo vento d’inverno. Qui si parla del futuro dell’Italia e dei giovani italiani, chi pensa al presente commette un grave errore, siate coragiosi nelle scelte e guardate al futuro in un ottica diversa, e questo Paese non puo’ che giovarci. Esposito Emanuele

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PICCOLO RICETTARIO DI CUCINA DELLA DIASPORA

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“In realtà il cibo ebraico non esiste. Ciò che qui è familiare come cibo ebraico, è totalmente sconosciuto agli ebrei d’Egitto, Marocco e India. Cibo regionale, locale, diventa ebreo quando viaggia con gli ebrei verso nuove patrie [… eppure ] dopo anni di ricerca al soggetto, posso dire che ogni regione o Paese ha i suoi particolari piatti ebraici e questi sono spesso molto differenti dalla cucina locale. Gli ebrei hanno adottato le cucine dei Paesi in cui sono vissuti, ma in ogni Paese la loro cucina ha avuto un tocco, un gusto e note caratteristiche speciali e qualche piatto completamente originale che l’ha reso distinto e riconoscibile.

” Claudia Roden, The Book of Jewish Food An Odissey from Samarkand and Vilna to the Present Day London, Penguin, 1996

Polpette d’agnello (Comunità di Marrakesh) INGREDIENTI (per 6 persone): 500 gr. di spalla d’agnello macinata, 2 cipolle rosse, 2 patate, 300 gr. di riso, 2 peperoni gialli, 600 gr. di carote, 300 gr. di uvetta sultanina, 100 gr. di pinoli, 2 cucchiai di cumino, 2 cucchiai di prezzemolo tritato, 1 kg di passata di pomodoro, 1 bicchiere di farina, 2 uova, olio di girasole. PREPARAZIONE: Mescolare la carne con una cipolla tritata, le uova, il prezzemolo, le patate tritate e crude, metà dose di cumino e metà dose di uvetta. Preparare delle polpettine tonde e passarle nella farina. Mettere in una pentola antiaderente con olio e passata di pomodoro già pronta (insaporita con la cipolla tritata molto fine), cuocere piano e coperto per 90’ e cospargere di un pizzico di cumino e uvetta. Tagliare i peperoni a piccoli pezzi e cuocerli in pentola antiaderente con un cucchiaino di uvetta, olio e sale. Fare lo stesso con le carote, tagliate a fettine lunghe e sottili, scottandole prima per 10 minuti. Lessare il riso, aggiungere il cumino, l’uvetta rimasti e i pinoli. Disporre il tutto in un grande vassoio con il riso al centro, sopra la verdura e intorno le polpette. Servire molto caldo.

Scaloppine alla lattuga (Comunità di Roma) INGREDIENTI (per 4 persone): 500 gr. di fettine magre di vitella, 60 gr. di grasso di vitella, 1 grossa pianta di lattuga, farina, olio, sale, pepe PREPARAZIONE: Battere bene la carne ed infarinarla; metterla in padella e farla cuocere a fuoco vivo, mettere sale e pepe. Disporre metà delle fettine in una teglia oleata, coprirle di lattuga ben lavata; di nuovo adagiare l’altra metà delle fettine e coprire con le altre foglie di lattuga. Versare sopra l’olio, un po’ di grasso di vitella ed infornare.

Aliciotti con l’Indivia (Comunità di Roma) INGREDIENTI (per 4 persone): 1 kg alici pulite, fresche, aperte a metà, disliscate e senza testa, 1 kg di indivia PREPARAZIONE: Lavare bene l’indivia, eliminando le foglie verdi. Metterla sotto sale per un paio d’ore, quindi sciacquarla e strizzarla con le mani molto bene. Tagliarla a striscioline. Ungere con olio d’oliva il fondo di una pirofila. Disporre uno strato di indivia, uno di alici ben sistemate, un pizzico di sale, pepe, un buon giro d’olio (la cucina giudaico romanesca NON E’ DIETETICA!), e così per un paio di strati (dovrebbero bastare) finire con l’indivia. Altro giro d’olio. Infornare a 180 per una 40ina di minuti (l’indivia deve essere molto colorita, quasi bruciacchiata!)

Triglie al pomodoro (Comunità di Livorno) INGREDIENTI (per 4 persone): 600 gr. di grosse triglie, 4-5 pomodori grossi, uno spicchio d’aglio, sale, pepe, olio PREPARAZIONE: Preparare il sugo in un recipiente basso. Mentre cuoce, pulire le triglie, lavarle; allinearle un capo e un piedi nel sugo che deve finire di rapprendersi. Agitare delicatamente il tegame durante la cottura.

Babaganoush (Comunità di Tripoli) INGREDIENTI (per 4 persone): 4 melanzane (del tipo lungo), olio d’oliva, sale. PREPARAZIONE: Bruciare molto bene le melanzane sui fornelli (andrebbero fatte su una griglia a legna) da tutti i lati finché non sono completamente bruciate e affumicate. Spellarle (occhio alle dita!) e strizzarle molto bene (faranno molta acqua). Metterle in una ciotola stretta e alta, aggiungere sale e con un sbattitore ad immersione frullarle aggiungendo (a filo)olio fino a quando non saranno diventate una specie di mousse morbida e gentile al palato. Deve sapere di affumicato… ma non troppo; deve sciogliersi in bocca come una mousse e avviluppare le papille gustative in modo dolce e delicato.

Bulemas (Comunità di Tripoli) INGREDIENTI (per 4 persone): 500 gr. di pasta di pane all’olio, 200 g provolone piccante, 450 g spinaci lessati,1 uovo per spennellare, semi di sesamo PREPARAZIONE: Tritare gli spinaci nel mixer insieme al provolone. Stendere la pasta di pane sottile, e ritagliarne dei quadrati di ca. 10 cm di diametro. Posizionarci dentro una pallina di ripieno, chiudere “a pacchetto”, spennellare con l’uovo e cospargere con semi di sesamo. Ungere una teglia, posizionarci le bulemas vicine l’una all’altra, cospargere ancora con dell’olio e infornare a forno già caldo 180/200 finche non sono belle dorate

Borrekas di formaggio (Comunità di Izmir) INGREDIENTI (per 4 persone): 500 gr. di pasta sfoglia (ma si, va bene anche anche quella surgelata), 1 patata bollita, 1 uovo, parmigiano, verdure trifolate a scelta (melanzane, zucchine…) PREPARAZIONE: Fare un impasto morbido con la patata schiacciata, l’uovo, un pizzico di sale e un cucchiaio di parmigiano. Aggiungere a piacere qualche verdura trifolata. Stendere la sfoglia molto sottile a rettangoli lunghi che andranno poi piegati a triangolini, spennellati con rosso d’uovo e qualche semino di sesamo e poi messi in forno a 180° finché non prendono colore. INGREDIENTI (per 4 persone): 1 sedano intero con foglie, 2 zucchine, 2 patate, 2 porri, una buona manciata di prezzemolo, 2-3 spicchi d’aglio, 3 limoni spremuti, brodo di carne PREPARAZIONE: Tagliare le verdure a dadini piccoli e metterle in pentola insieme all’aglio schiacciato. Far cuocere 10 minuti a fuoco vivace mescolando. Poi coprire d’acqua di brodo) e lasciar cuocer coperto finché non è cotta la patata. Togliere dal fuoco e aggiungere il succo di limone. Servire disponendo la minestra nella scodella sopra una porzione di riso basmati pilaf. RisoPilaf Mettere in un pentolino antiaderente 2 tazze e 1/2 di acqua con un pizzico di sale grosso e un giro di olio evo. Coprire e portare a bollore. Quando bolle aggiungere 2 tazze di riso basmati, abbassare il fuoco, coprire e cuocere almeno per 15/20 minuti. Continua a cuocere più a lungo, il riso forma una deliziosa crosticina sotto pur rimanendo comunque ben sgranato

Pizza d’azzima (Comunità di Roma) INGREDIENTI (per 4 persone): 4 azime, olio, sale, pepe, qualche filetto di alice PREPARAZIONE: Bagnare velocemente l’azzima e metterla nella teglia oleata. Ricoprirla con abbondante olio, pomodoro già cotto, qualche filetto di alice, sale, pepe. Infornare e servire calda

 Frittata di formaggio (Comunità di Venezia) INGREDIENTI (per 4 persone): 6 uova, 4 cucchiai di latte, 1 cucchiaio di farina, formaggio Asiago stagionato, olio, sale PREPARAZIONE: Battere le uova con il sale, la farina e il latte. Fare tre frittate in padelle grandi e sottili. Disporle in una teglia mettendo tra l’una e l’altra il formaggio a fettine e terminando con il formaggio grattugiato. Infornare finché non è fuso il formaggio. Servire caldissima.

Carciofi alla giudia (Comunità di Roma) INGREDIENTI (per 6 persone): 12 carciofi romaneschi, olio, sale, pepe, limone o aceto PREPARAZIONE: Pulire i carciofi lasciandoli con un pezzo di gambo, immergerli nell’acqua acidulata. Batterli uno contro l’altro perché le foglie comincino ad aprirsi. Metterci sale, pepe e disporli in un tegame con olio abbondante e un pochino d’acqua per farli ammollare. Quando sono a buon punto, toglierli, aprirli delicatamente con due forchette per formare una “rosa sbocciata”. Messi con il gambo in alto su un piatto, manterranno questa forma fino alla frittura. Versare olio abbondante in una padella e un’ora prima di servirli in tavola, prenderli per il gambo e metterli a friggere voltandoli delicatamente perché si possa dorare anche il gambo. Quando sono arrivati a buon punto di cottura, spruzzarli di acqua il che serve a far imbiondire le foglie. Scolarli e servirli ben caldi.

Fellafel (Comunità di Gerusalemme) INGREDIENTI (per 4 persone): ½ kg ceci secchi, 1 grossa cipolla, 1 spicchio d’aglio, Una bella manciata di prezzemolo, un pugnetto di farina, una punta di bicarbonato. PREPARAZIONE: Ammollare i ceci per 48 ore rinnovando spesso l’acqua. Se germogliano è meglio ancora. Scolarli e tritarli abbastanza finemente nel mixer con il resto degli ingredienti. Aggiungere la farina ed eventualmente anche un po’ d’acqua se fosse difficile lavorarli. Scaldare abbondante olio di semi di arachide in una grossa padella, fare delle polpettine con l’aiuto di 2 cucchiaini (devono essere grandi come delle piccole noci) e friggerle nell’olio caldo. Scolare e servire caldi con pitte (pane arabo/israeliano), humus (crema a base di ceci), tehina (salsa a base di olio di sesamo) e salat chatzilim (salsa a base di melanzane).

Hraimi (Comunità di Tripoli) INGREDIENTI (per 4 persone): 7-8 etti di filetti di merluzzo o cernia tagliati a bocconcini, aglio, prezzemolo, olio, sale, harissa, cumino, 1 bottiglia di passata di pomodoro PREPARAZIONE: Soffriggere il pesce con aglio e olio a fuoco allegro. Quando l’acqua che il pesce, avrà tirato fuori sarà evaporata, aggiungere sale e le spezie, insaporire un pochino, quindi versare la passata, abbassare il fuoco, coprire e lasciar restringere, il sugo. Se fosse necessario scoperchiare. Servire con cus cus

Humus (Comunità del Cairo) INGREDIENTI (per 4 persone): 250 g. ceci secchi, 2 spicchi d’aglio, olio d’oliva, sale, pepe, cumino e succo di limone. Per guarnire: paprika, pinoli e olio d’oliva PREPARAZIONE: Ammollare i ceci almeno 24 ore, lessarli partendo da acqua fredda e metterli nel mixer con la cipolla, l’aglio schiacciato e le spezie. Se necessario aggiungere acqua. Deve avere una consistenza cremosa. Mettere in un piatto e guarnire con un giro d’olio, paprika e qualche pinolo

Frittelle di patate (Comunità di Praha) INGREDIENTI (per 4 persone): 500 g di patate, 2 uova, sale, noce moscata, grasso d’oca o olio PREPARAZIONE: Lessare le patate e schiacciarle, unirci le uova battute, il sale, la noce moscata e friggerle a cucchiaiate nel grasso o nell’olio. Scolarle e servirle calde.

Challah (Comunità di Venezia) INGREDIENTI (per 4 persone): 500 g farina 00, 30 g di zucchero, 20 g lievito di birra, 2 uova, 70 g di burro, 2 cucchiaini da té di sale Per glassare: 1 tuorlo, semi di papavero PREPARAZIONE: Impastare gli ingredienti e mettere a riposare in luogo caldo per 1 ora. Riprendere l’impasto, farne velocemente 3 cordoni uguali con cui si formerà una treccia. Rimettere a lievitare coperta per altri 45 min. Spennellare con un tuorlo sbattuto con 2 cucchiai d’acqua e cospargere di semi di papavero. Infornare a 200 per 20-25 min o fino a quando assume un bel colore bruno. Lasciare raffreddare completamente.

Pizzarelle al miele (Comunità di Roma) INGREDIENTI (per 4 persone): 4 azzime (normali), 4 uova, 8 cucchiai di zucchero, un pizzico di sale, pinoli, uva sultanina, cioccolato amaro, miele PREPARAZIONE: Mettere a bagno le azzime la sera prima, il giorno dopo, strizzarle bene fra le mani, metterla in un’insalatiera finendo di romperle con la forchetta. Incorporare le uova e gli altri ingredienti. Friggere in olio abbondante, prendendo una piccola quantità d’impasto con un cucchiaio precedentemente bagnato nell’olio della padella. Quando sono dorate, scolarle nel colabrodo o nella carta paglia. Indi accomodarle sul piatto da portata e versarci sopra il miele sciolto con un po’ d’acqua.

Crostata di ricotta (Comunità di Roma) INGREDIENTI (per 4 persone): Per la pasta:, 2 uova, 400 gr. di farina, 200 gr. di zucchero, pizzico di sale, raschiatura di limone Per il ripieno: 500 gr. di ricotta, 100 gr. di zucchero, marmellata di visciole quanto un velo, burro e farina PREPARAZIONE: Intridere il burro con l’uovo e lo zucchero, unire tutta la farina. Lavorare poco questa pasta e formarne una palla che dovrò riposare in luogo fresco per mezz’ora. Battere la ricotta con lo zucchero; imburrare ed infarinare la teglia, mettere al fondo metà della pasta, sopra questa un leggero strato di visciola e ricoprirla con la ricotta. Finire mettendo il bordo intorno e le striscioline come una normale crostata ed infornare a forno leggero.

Harroset (Comunità di Livorno) INGREDIENTI (per 4 persone): 2 mele grattugiate, il succo di una arancia spremuta, 60 g di uva passa, 200 g di mandorle tritate, qualche dattero, un po’ di vino rosso, 3 cucchiai di zucchero, 1 pera, volendo un cucchiaio di scorza d’arancio grattugiata e un po’ di cannella o zenzero. PREPARAZIONE: Disfare al fuoco pera, mela e datteri snocciolati per poco tempo. Far rinvenire l’uvetta nel succo d’arancia. Tritare i datteri con le mandorle e mescolare tutti gli ingredienti fino ad ottenere una consistenza un poco più solida di una marmellata. Deve rimanere sul cucchiaino quando lo si rovescia. Se risultasse troppo morbida si può aggiungere un pochino di azzima tritata per solidificarla.

Amaretti (Comunità di Torino) INGREDIENTI (per 4 persone): 200 g di mandorle dolci, 15 mandorle amare, 200 g di zucchero, 2 chiare d’uovo, vaniglia, un pizzico di sale PREPARAZIONE: Tritare le mandorle, già spellate, con un po’ di zucchero fino a ridurle in farina. Aggiungere alla farina di mandorle il restante zucchero, la vaniglia, il sale e la chiara d’uovo necessaria ad ottenere un impasto tale da poter essere usato con il sac-a-poche. Formare dei mucchietti disponendoli in una teglia coperta di carta forno e far cuocere dai 6 agli 8 minuti in forno già riscaldato, ad una temperatura di 250°-260°.

Dolce di pane e miele (Comunità di Venezia) INGREDIENTI (per 4 persone): 5 manciate di pane raffermo, 2 uova, 3 cucchiai di zucchero, 50 gr. di uvetta, 2 cucchiai di canditi, olio, sale, miele, fichi, datteri, melograno PREPARAZIONE: Ammollare il pane nell’acqua alcune ore, passarlo al setaccio o allo scolatore dopo averlo ben strizzato. Mettere un pizzico di sale, le uova battute, 2 cucchiai di zucchero, l’uvetta rinvenuta un po’ nell’acqua e asciugata, la frutta candita a pezzetti. Ungere di olio una teglia, versarci dentro il composto ed infornare. Dopo aver tolto il dolce dal fuoco cioè dopo circa 3/4 d’ora, farlo raffreddare e guarnirlo con abbondante miele, un giro esterno di datteri snocciolati, uno più interno di fichi spaccati in quattro e al centro un mucchietto di chicchi di melograno oppure un melograno ben lavato, asciugato e aperto in quattro.

Bocca di dama INGREDIENTI (per 4 persone): 4 uova intere e 8 tuorli, 100 gr. di farina, 270 di zucchero, 200 gr. di mandorle, raschiatura di limone PREPARAZIONE: Sbollentare e spellare le mandorle, pestarle nel mortaio. Lasciarle asciugare, spruzzarle con un po’ di farina e rimestarle. Battere le uova con lo zucchero a lungo con la frusta, aggiungere le mandorle e lavorare il composto per circa 20 minuti; poi mettere la raschiatura di limone e versare la farina rimestando con delicatezza. Ungere abbondantemente di olio una teglia che contenga il preparato fino ai 3/4 perché cuocendo in forno medio aumenterà di volume. Sfornare e spolverizzare di zucchero.

Biancomangiare INGREDIENTI (per 12 persone): 1 kg. di farina, 100 gr. di burro, 5 cucchiai di olio, 500 gr. di mandorle, 350 gr. di zucchero, 3 uova, 100 gr. di cedro candito, cannella, buccia di limone grattata, olio PREPARAZIONE: Fare una pasta molto sottile con farina, due bicchieri di acqua tiepida, burro (o grasso d’oca) e l’olio. Formare una sfoglia molto grande, ungerla di olio, ripiegarla e di nuovo ungerla e ripiegarla fino ad ottenere quattro strati. Tagliare tanti quadrati di circa 12 cm, smussarli agli angoli, metterci al centro un po’ di ripieno (mandorle, zucchero, uova, cedro, cannella, raschiatura di limone). prendere delicatamente due lati al centro, unirli e chiudere il resto stringendo la pasta con le dita. Friggere in olio bollente, scolare e spolverizzare di zucchero.

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Le prescrizioni alimentari dei cristiani

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Le prescrizioni alimentari dei cristiani

Dei divieti alimentari della Torah, Gesù Cristo, ebreo palestinese della tribù di David, ha fatto carta straccia: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo» e ancora: «Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?» (Mc 7:14,19).

La comunità cristiana delle origini si divise fin da subito sul rispetto delle regole alimentari ebraiche. Quando l’apostolo Pietro, nato da famiglia ebrea, accettò l’invito a cena di Cornelio, un centurione romano, alcuni cristiani non esitano a rimproverarlo: «Sei entrato in casa di uomini non circoncisi e hai mangiato insieme con loro!» (Ac 11:3). Pietro conosceva bene quel divieto «Voi sapete che non è lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza; ma Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo.» (Ac 10:28). Nella lettera ai Galati si legge che Pietro «prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi» (Ga 2:12).

Se i primi cristiani di origine ebraica hanno continuato a osservare le prescrizioni alimentari della Bibbia di Israele, la conversione dei pagani al cristianesimo ha spinto gli apostoli ad accantonare quei divieti. Ancora dagli Atti apprendiamo una visione di Pietro: «Gli venne fame e voleva prendere cibo. Ma mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi.  Vide il cielo aperto e un oggetto che discendeva come una tovaglia grande, calata a terra per i quattro capi. In essa c’era ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo. Allora risuonò una voce che gli diceva: “Alzati, Pietro, uccidi e mangia!”. Ma Pietro rispose: “No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo”. E la voce di nuovo a lui: “Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano”».

Ai tempi del primo Concilio tenuto dagli apostoli a Gerusalemme, più o meno nel 50 d.C., fu presa la decisione di limitare il più possibile la distinzione tra animali leciti e proibiti, cibo puro e impuro. «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia. Farete cosa buona perciò a guardarvi da queste cose» (Ac 15:28-29). Vale la pena sottolineare che nel medesimo Concilio venne tolto per i cristiani l’obbligo della circoncisione, importantissimo sigillo identitario per gli ebrei ai quali era proibito frequentare, avere rapporti e anche solo salutare i non circoncisi. Con quelle decisioni la Chiesa primitiva usciva dai confini etnico-religiosi di Gerusalemme e del giudaismo. Non con il senso e il fine di un atto di ribellione nei confronti dell’integralismo israelita ma come strumento funzionale ad una predicazione non discriminatoria, a tutto campo, finalizzata alla diffusione del Vangelo di Cristo allora non ancora scritto.

Nella prima lettera ai Corinti San Paolo affronta ancora il tema del cibo con la sua consueta determinazione e intelligenza. Sulle carni immolate agli idoli: «…noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo.» (I Co 8:4)  E ancora più avanti: «”Tutto è lecito!”. Ma non tutto è utile! “Tutto è lecito!”. Ma non tutto edifica. Nessuno cerchi l’utile proprio, ma quello altrui. Tutto ciò che è in vendita sul mercato, mangiatelo pure senza indagare per motivo di coscienza, perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene. Se qualcuno non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello che vi viene posto davanti, senza fare questioni per motivo di coscienza. Ma se qualcuno vi dicesse: “È carne immolata in sacrificio”, astenetevi dal mangiarne, per riguardo a colui che vi ha avvertito e per motivo di coscienza; della coscienza, dico, non tua, ma dell’altro. Per qual motivo, infatti, questa mia libertà dovrebbe esser sottoposta al giudizio della coscienza altrui? Se io con rendimento di grazie partecipo alla mensa, perché dovrei essere biasimato per quello di cui rendo grazie?» (I Co 10:25-30).

Nella sua epistola ai Romani (Rm 14), Paolo scrive: «Accogliete tra voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni. Uno crede di poter mangiare di tutto, l’altro invece, che è debole, mangia solo legumi. Colui che mangia non disprezzi chi non mangia; chi non mangia, non giudichi male chi mangia, perché Dio lo ha accolto» … «Io so, e ne sono persuaso nel Signore Gesù, che nulla è immondo in se stesso; ma se uno ritiene qualcosa come immondo, per lui è immondo. Ora se per il tuo cibo il tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità. Guardati perciò dal rovinare con il tuo cibo uno per il quale Cristo è morto! Non divenga motivo di biasimo il bene di cui godete! Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo». (Rm 14:2-4, 14-17)

Il sangue

Il divieto di consumare il sangue, oggi non più così ferreo, è stato a lungo rispettato dei cristiani così come confermato da Tertulliano di Cartagine ( 155-220 ca. ), apologista, polemista, teologo e moralista, il quale dimostra l’assurdità delle accuse contro i cristiani, e come stragi e calunnie ottengono l’effetto contrario. Sua è la famosa frase sanguis semen cristiano rum (il sangue è semente di cristiani). Nella sua Apologia del cristianesimo (IX, 9-15) così si esprime: «Arrossisca la vostra aberrazione davanti a noi cristiani, che non consideriamo il sangue degli animali neppure come cibo ammesso nei pranzi, e per questa ragione ci asteniamo dagli animali uccisi per soffocamento o morti naturalmente, per non essere in alcun modo contaminati dal sangue, anche se giace sepolto fra le viscere». Nel 692, il Concilio in Trullo (palazzo imperiale di Costantinopoli) vieta espressamente il consumo di qualsiasi alimento contenente sangue, e stabilisce la scomunica per il popolo che contravvenga al veto e la destituzione per i sacerdoti.

Le carni equine

Alcune prescrizioni alimentari si affacciano di quando in quando nella storia della cristianità. Nel  732, i cavalieri franchi di Carlo Martello nei dintorni di Tours mettono un freno all’ espansionismo musulmano e papa Gregorio III pone fine con una epistola al consumo di carne equina: i quadrupedi si sono mostrati troppo preziosi per venire banalmente macellati. Il successore di Gregorio,  Zaccaria I, scaglia un ulteriore anatema sulla carne di cavallo con l’intento di discriminare gli invasori Germani che si cibavano delle carni immolate al culto di Odino. Il sacrificio pagano diventa quindi la vera ragione dell’interdetto alimentare. Tracce di questa avversione nei confronti delle carni equine (il cui consumo fu ri-considerato “lecito” per la Chiesa all’epoca della Ritirata di Russia) permangono ancora in molte aree cristiane che considerano il cavallo “impuro” o “abominevole” dal punto di vista religioso, in questo inconsapevolmente d’accordo con l’Islam e l’Ebraismo.

L’astinenza e il digiuno

La Scrittura non comanda ai cristiani di digiunare o di astenersi dal consumo delle carni. Ma allo stesso tempo, la Bibbia presenta il digiuno come qualcosa di buono, proficuo e che ci si aspetta. Secoli di tradizione spirituale cristiana avevano conservato le pratiche dell’astinenza e del digiuno come un memoriale necessario. Oggi la chiesa cattolica propone (non obbliga a) l’astinenza dalla carne solo nei venerdì di quaresima, permettendo la sostituzione di questa pratica con altre opere nei venerdì del resto dell’anno. Le chiese ortodosse invece conservano una legislazione molto precisa riguardo all’astinenza da alcuni alimenti e i fedeli vi si attengono con estrema serietà. Resta difficile da comprendere perché mai astenersi dalle carni e poter invece mangiare la carne… di pesce, che oggi è più ricercata e più costosa della carne stessa.

Una notazione. Nel cinquecento, il Concilio di Trento fu indetto sull’onda della Controriforma Luterana anche con lo scopo di imporre alla Chiesa Cattolica usi e contegni più frugali e controllati. Il nuovo corso della morale ecclesiale s’impose di stigmatizzare la cucina grassa del Medioevo predicando l’astinenza dalle carni il venerdì e per tutta la Quaresima. Le aringhe e il merluzzo seccato o salato erano uno dei principali commerci dell’epoca: cibi poco costosi, proteici, facilmente trasportabili e conservabili permettevano ai fedeli di salvare l’anima riempiendo lo stomaco. Ciò che è poco noto e che un Padre Conciliare, il Cardinale Olao Magno, fece uso di tutta la sua influenza per convincere i suoi “colleghi” a pronunciarsi a favore dello stoccafisso, indicandolo come cibo adatto a sostituire le carni, cibo lussurioso e grasso che induceva al peccato. E ci riuscì. Per la cronaca Olao Magno era il nome latinizzato di Olaf Manson arcivescovo di Uppsala, primate di Svezia, la cui famiglia commerciava in stoccafisso da secoli…  Comunque sia, oggi il presupposto religioso (che divieto non è) è scivolato lentamente verso la norma dietetica: ci si astiene da determinati cibi più per salvaguardare la propria linea che l’anima!

 

Qualche eccezione

Alcuni gruppi religiosi cristiani continuano a osservare i precetti alimentari della Bibbia. È il caso degli Avventisti e raccomandano una dieta ovo-latteo-vegetariana e il rispetto degli interdetti biblici sugli animali. E si ritengono che “la distinzione tra gli animali puri e impuri fu operata all’epoca di Noè, molto tempo prima dell’esistenza di Israele”. E si raccomandano anche di astenersi dal fumare e dal consumare alcol, e caffè (considerate lente forme di suicidio, contrarie quindi al comandamento “non uccidere”). Per questo motivo nelle celebrazioni eucaristiche usano succo d’uva anziché vino. Gli Avventisti si astengono dal consumo del sangue ma non si oppongono alla trasfusione terapeutica com’è consuetudine per i Testimoni di Geova. Per questi ultimi le regole alimentari della Bibbia non sono vincolanti (sangue escluso) e non hanno alcuna preclusione sul consumo del vino e degli alcolici ma considerano il fumo come una disobbedienza al dettato di San Paolo “purifichiamoci da tutte le sozzure della carne e dello spirito”. I Mormoni non osservano le prescrizioni alimentari della Bibbia riguardanti gli animali ma raccomandano di non cibarsi di sangue. Si astengono dal fumo, dall’alcol, dal tè e dal caffè.

Nonostante questi tre gruppi si oppongano al consumo del sangue, nessuno di loro richiede pratiche rituali particolari per l’abbattimento degli animali, come quelle proprie degli ebrei. Ignorano anche la norma biblica che vieta di mescolare la carne al latte.

L’ordine religioso dei Certosini fa della privazione costante di ogni carne un elemento fondamentale della sua regola al capitolo 7 del loro Statuto si legge: “ Secondo un’abitudine introdotta dai nostri padri fondatori e sempre guardata con particolare rispetto, noi abbiamo rinunciato all’uso della carne. Questo è un tratto caratteristico dell’Ordine e un segno della austerità eremitica in cui, con l’aiuto di Dio, noi abbiamo scelto di vivere”.

Si può dunque concludere che i cristiani, con l’eccezione di qualche gruppo minore, non conoscono né praticano forme di privazione-esclusione alimentare a fini religiosi. E se oggi i cristiani d’Occidente non mangiano topi o cani, ciò è da ascrivere solo a costumi e pratiche culinarie e non a divieti religiosi.

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Il mondo Ebraico del cibo

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Il mondo Ebraico del cibo I PRECETTI ALIMENTARI EBRAICI Uno dei primi divieti imposti all’uomo riguardò il cibo. Nel paradiso terrestre Iddio proibì ad Adamo ed Eva di mangiare i frutti dell’Albero della Vita. Non è dunque un caso che gli Ebrei diano una notevole importanza all’autocontrollo alimentare. Da tremila anni nella casa Ebraica, il tavolo è un altare, la cucina un tabernacolo. Lungi dall’essere oppressive per i credenti, le regole alimentari Ebraiche hanno favo¬rito – rafforzando l’identità dello stesso popolo Ebraico disperso – la nascita di una cucina ricca e fantasiosa, all’interno della quale si armonizzano sia gli elementi della cultura originaria che le singole tradizioni alimentari locali. L’Ebraismo, onorando e sacralizzando le norme che vigono in cucina, non sminuisce affatto il valore della religione, ma innalza verso il cielo un atto, il nutrimento, che è, pur nella sua apparente banalità, l’essenza stessa della vita umana. Seicentotredici sono i precetti (mitzvòt) che l’ebreo deve osservare per adempiere al suo ruolo sacerdotale nel mondo. Molti di questi obblighi o divieti sono relativi al cibo e alla cucina. Lo stesso numero 613 fa riferimento alla quantità di semi contenuta nel frutto – il melograno – che simboleggia per gli Ebrei l’Albero della Vita presente nell’Eden. I mitzvòt prescrivono obblighi e interdizioni nella scelta degli ingredienti da utilizzare, nella preparazione delle pie¬tanze e nelle modalità della loro assunzione. L’insieme di queste norme è presente nella Torah (il Pentateuco, cioè i primi cinque libri di quello che i cristiani chiamano Antico Testamento) con lo scopo di guidare gli Ebrei verso un sistema di vita che porti la parola divina nei gesti della quotidianità. Per questo motivo ogni alimento, per poter essere consumato, deve essere kosher (adatto, valido), ovvero preparato nel pieno rispetto delle regole alimentari Ebraiche. L’atto stesso dell’alimentarsi non è rivolto soltanto al soddisfacimento immedia¬to dei sensi, ma ha lo scopo di sostenere il corpo per prepararlo alla vita che è, per l’ebreo osservante, soprattutto servizio divino. La tavola imbandita trascende dun¬que il suo significato materiale per rivestirsi di valori etici e trasformarsi in professione di fede. Gli oggetti e le pietanze che vi compaiono non sono posti a caso, ma obbediscono alla logica di riti millenari: prima di accostarvisi è necessario purificarsi le mani e recitare specifiche benedizioni. L’alimentazione diventa così un momento di comunione con Dio, una forma di preghiera. È difficile risalire alle motivazioni originarie a causa delle quali queste regole si sono affermate. La scuola funzionalista vuole le regole alimentari Ebraiche strettamente connesse alle esigenze dell’economia agricola e pastorale dell’antico Israele, dove per altro il consumo di determinati tipi di carne poteva risultare nocivo e favorire malattie ed infezioni. All’antropologo non sfugge che la kosherut (l’essere adatto) possieda una sua ben definita finalità culturale, volta alla salvaguardia della specificità del popolo Ebraico. In senso più moderno, i divieti ali¬mentari giudaici possiedono una straordinaria valenza educativa in quanto portatori di un chiaro messaggio: all’uomo non è concesso di disporre di tutti i beni in maniera indiscriminata. Il cibo kosher è classificabile in tre categorie: cibi a base di carne, cibi a base di latte e cibi parve. Questi ultimi sono alimenti che non contengono né carne né latte e il termine parve indica il loro stato “neutrale”. Frutta e verdura allo stato naturale sono sia kosher che parve. Il pesce, purché abbia pinne e squame è kosher e parve. Tuttavia un alimento parve è considerato “di latte” se cucinato con latte o suoi deriva¬ti, o “di carne” se cucinato con carne o suoi derivati. Le leggi fonda¬mentali che definiscono quali animali siano kosher sono appunto illustrate nella Torah. Per poter essere leciti, i quadrupedi devono essere ruminanti e avere lo zoccolo diviso in due. La suc¬cessiva tradizione rabbinica ha poi indicato nell’assenza di incisivi superiori un ele¬mento certo per la definizione di ruminante. Partendo da questi presupposti, risulta¬no commestibili i cervidi, i bovini, gli ovini, i caprini e persino la giraffa. Tuttavia i cervidi, pur essendo ammissibili, non possono più essere consumati in quanto, in base alle vigenti normative, devono essere abbattuti con colpo di pistola in campi aperti e non condotti in mattatoio per la macellazione rituale come richiesto dalle regole Ebraiche. Tra i quadrupedi restano esclusi i camelidi (ruminanti, ma senza divisione di zoccolo), i suini (non ruminanti), il cavallo, il coniglio, la lepre. Più difficile è determinare, tra i volatili, quali siano le specie permesse. Sia il Levitico che il Deuteronomio non forniscono precisi criteri, ma soltanto un elenco di animali proibiti: lo struzzo, il gufo, l’avvoltoio e pochi altri. La tradizione orale ha però stabilito che il volatile kosher non deve essere “rapace” e che sono da considerarsi rapaci tutti quei volatili che, quando si appoggia¬no su un supporto, dividono le dita delle zampe, due anteriormente e due posterior¬mente, o quei volatili che prendono il cibo al volo. Appurato che non si tratti di un rapace, è necessario che il volatile possieda un dito della zampa rivolto posterior¬mente, abbia il gozzo e il ventricolo avvolto da una membrana facilmente asportabile con il solo uso delle mani. Per quanto riguarda le uova, ne è permesso il consumo quando sia kosher anche l’animale che le ha deposte. Per tradizione sono dunque permessi il pollame in generale, ma anche il piccione, il fagiano e la pernice. Il Levitico fornisce, in maniera precisa, il criterio per riconoscere gli animali acquatici permessi: quelli con pinne e squame. Ciò esclude, ovviamente, ogni tipo di mollusco, crostaceo o mammifero acquatico, ma anche l’anguilla, il pesce spa¬da, il pesce gatto, lo squalo e moltissimi altri. Sono considerati kosher soltanto quei pesci che abbiano pinne e squame facilmente asportabili, motivo per il quale lo storione in alcune comunità Ebraiche non è conside¬rato kosher, come non lo sono le sue uova, mentre in altre è considerato lecito. Il latte e i suoi derivati, che provengano da un animale kosher, sono kosher a loro volta. Tuttavia, poiché non è possibile distinguere latte kosher da quello non kosher, i rabbini hanno stabilito che esso debba essere controllato dalla mungitura fino al confezionamento. Il latte controllato si trova attualmente in commercio con la dicitura Chalav Israel. Una posizione centrale nelle regole della kosherut è occupata dalla separazio¬ne tra carne e latte. Ben tre volte è infatti ripetuto nella Bibbia: “non cuocerai un capretto nel latte della. madre”. La tradizione ha poi vietato qualsiasi mescolanza di carne e latte nell’ambito dello stesso pasto, ma non soltanto. Per poter consumare latticini, dopo aver mangiato carne, è richiesta un’attesa di sei ore. Sono dunque bandite le “bistecche al burro”, i cheeseburger, il caffè macchiato e i dolci a base di latte se consumati al termine di un pasto a base di carne. Per evitare la più piccola contaminazione tra carne e latte, le regole della separazione si applicano anche a tutti gli utensili che possano essere impiegati in cucina: ciò comporta il possesso e l’uso di batterie separate di posate, piatti, utensili e lavandini. Anche la lavastoviglie può essere utilizzata per lavare piatti e stoviglie adoperati o per la carne o per il latte, ma non per entrambi. Il pane deve essere sempre parve: non può dunque contenere né burro, né latte, né ovviamente strut¬to, né essere cotto negli stessi forni dove vengono cotti pane o dolci non kosher. Non è comunque sufficiente che l’animale appartenga a una specie permessa perché sia concesso cibarsene. Esso deve essere esente da difetti fisici e da malat¬tie e deve essere macellato ritualmente secondo la shechitah, ossia mediante un taglio rapido alla gola praticato con un coltello affilatissimo, privo di qualsiasi imperfezione sulla lama. La tradizione richiede espressamente che il movimento del coltello sia ininterrotto, che venga effettuato senza esercitare pressione, che il taglio incida trasversalmente la gola senza entrare nelle carni, che la trachea e l’esofago non vengano spostati in modo tale da rendere la morte dell’animale il meno dolorosa possibile. Soltanto se tutte queste condizioni vengono soddisfatte, la carne dell’animale può essere consumata. L’uccisione di un animale non è dunque vista come un evento consuetudinario e il rito della shechitah ha proprio lo scopo di far riflettere sulla crudezza dell’atto che si sta compiendo. Non per nulla lo shochet (il macellatore), oltre alle svariate cautele, deve recitare una benedizione prima di procedere alla macellazione: la violenza va sempre controllata mediante l’osservazione delle leggi divine. Non tutte le parti dell’animale, una volta macellato, sono comunque commestibili. Sono proibite infatti tutte quelle parti di grasso, il chèlev, che venivano bruciate sul¬l’altare: il grasso che avvolge i reni, quello intorno al peritoneo, quello del grande omento e quello che contraddistingue l’area dorsale. D’altro canto la Bibbia afferma esplicitamente che “ogni parte grassa appartiene al Signore”. E siccome il procedimento di purificazione (nikur) che comporta la rimozione di alcune vene e dei grassi vietati, è notevolmente complesso nei quarti posteriori degli animali, in molte comunità della diaspora non viene effettuato e queste parti vengono vendute al mercato non Ebraico. I quarti posteriori dei quadrupedi contengono, tra l’altro, il nervo sciatico, che non può essere consumato dagli Ebrei, poiché è il punto in cui Giacobbe rimase ferito nel suo scontro con l’angelo. Quella dell’astinenza dal chèlev è definita una “legge eterna” al pari del divieto di cibarsi di sangue. Il divieto del sangue, dato da Dio già a Noè, implica lo svolgimento di tutta una serie di operazioni da intraprendere prima di consumare la carne. Poiché il dissanguamento ottenuto con la shechitah non riesce a privare la carne dell’animale da ogni traccia di sangue, la tradizione stabilisce che è possibile farlo con la salatura o con l’arrostitura. Nel primo caso occorre immerge¬re la carne in acqua per almeno mezz’ora, quindi posarla su una superficie perforata (per permettere il deflusso del sangue) e ricoprirla di sale grosso. Dopo un’ora biso¬gna risciacquarla tre volte sotto acqua corrente: soltanto in quel momento la carne è pronta per l’uso. Nel secondo caso occorre cuocere la carne già lavata a contatto con il fuoco, facendo attenzione ad eliminare il liquido che ne fuoriesce. Il fegato, ad esempio, essendo imbevuto di sangue non può essere kosherizzato con la salatura ma deve essere preparato esclusivamente alla griglia a di¬retto contatto con la fiamma. Il popolo Ebraico ha saputo, nonostante la diaspora, mantenere salda la propria identità grazie al rispetto della tradizione e dei pre¬cetti. Tutto ciò non significa che l’Ebraismo sia una realtà omogenea. Vi sono peculiarità e differenze tra Ebrei di origine ashkenazita, come quelli originari della Francia o dell’Europa centrale, ed Ebrei sefarditi, come quelli pro¬venienti dalla Spagna e dal Portogallo, o tra Ebrei italiani e yemeniti, o tra Ebrei etiopici, cinesi, iracheni, nordamericani o indiani. Dissomiglianze si riscontrano anche in ambito alimentare, fermo restando il rispetto per le regole alimentari dettate dai precetti. È facile distinguere il gusto ashkenazita, che predi¬lige il pesce (chi non conosce il famoso gefillte fish), i brodi di pollo, i piatti a base di verdure (soprattutto patate) e le composte di frutta, dal gusto sefardita, più mediterraneo e amante degli stufati di carne, delle verdure, dei datteri e delle mandorle. A iniziare dal 1950 con il ritorno degli Ebrei in Israele, la cucina è riuscita ad esprimere quel senso di unitarietà che gli mancava per “contingenze” storiche. Si è creata così un’intelligente mescolanza di gusti e di alimenti che risente positivamente delle influenze della cultura araba e palestinese e del reciproco scambio tra le diverse anime della dia¬spora, fuse in maniera sorprendente in un sincretismo che è impossibile riscontrare altrove. Si sono così diffusi, come piatti “nazionali”, lo shishlik (spiedino di agnello, manzo, peperoni e cipolle), molto simile al kebab arabo, l’hummus (purè di ceci con aglio, succo di limone e olio d’oliva), la tahina (salsa a base di semi di sesamo) e i falafel (polpettine di ceci), ma anche i piatti della tradizione Ebraica delle diverse comunità: il già citato gefillte fish ashkenazita (pesce ripieno che si usa mangiare per il capodanno Ebraico), i sarmali sefarditi (polpettine di carne macinata e riso ricoperte da foglie di vite, tipiche di Succoth, la festa delle capanne che cade tra settembre e ottobre), i latkes di patate ashkenaziti (frittelle per Chanukkah, la festa delle luci dei primi di dicembre), le orecchie di Aman (dolci fitti e ripieni per Purim, la festa delle sorti che cade tra febbraio e marzo), i blintzes sefarditi ( frittatine molto popolari per Shavuoth, la Pentecoste che cade tra maggio e giugno). Gesù, ebreo di Nazareth Com’è noto, Gesù era ebreo. L’ultimo pasto che consumò con i suoi discepoli è registrato nel Nuovo Testamento da Marco e da Matteo, che ci informano circa il fatto che si stava celebrando la Pasqua Ebraica, la festa dei pani azzimi. Tuttavia né l’uno né l’altro Autore riportano quali piatti vennero serviti. Entrambi i raccon¬ti concordano però sul fatto che due dei discepoli erano giunti a Gerusalemme per cercare una casa in cui Gesù potesse trascorrere piace¬volmente il momento del pasto festivo. Gesù non ha mai rinnegato il suo Ebraismo (Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento) e si è sempre mantenuto fedele alla Legge Ebraica (È più facile che passino il cielo e la terra piuttosto che cada anche un solo apice della Legge). È dunque ragionevole pensare che la sua Ultima Cena sia proprio consistita in un seder (banchetto) di Pesach tradizionale. Pesach deriva dalla radice p-s-h che contiene in sé il concetto di “passaggio”, di “passare oltre”: il nome della festa si collega infatti al passaggio del malak ha¬mashchit, l’angelo distruttore che durante la liberazione dalla schiavitù colpì le case degli Egizi, ma oltrepassò – proteggendole – quelle Ebraiche. Il significato più profondo di questa festa è dunque legato al ricordo dell’intervento di Dio in favore degli Ebrei perseguitati in Egitto. E l’atto stesso del “ricordare” contraddistingue ogni momento degli otto giorni (sette in Israele) festivi. La Torah prescrive di mangiare, la sera del 15 di Nissan (mese Ebraico che cade tra marzo e aprile), il Qorban Pesach, l’agnello immolato lo stesso pomeriggio, accompagnato da azzime (matztot) ed erbe amare (maròr) che rammentano l’amarezza del soggiorno in Egit¬to). Tuttavia, dal 70 d.C. con la distruzione del Tempio ad opera delle truppe di Tito, quel sacrificio venne meno e si prese l’abitudine, rimasta tale sino ai giorni nostri, di porre sulla tavola una zampa d’agnello arrostita: un pezzo non carnoso, soltanto un ricordo del sacrificio vero e proprio. L’uso del pane azzimo (per tutta la durata della festa è fatto divieto di mangiare e addirittura di possedere cibo lievitato) celebra invece il pane che gli Ebrei, in corsa verso la liberazione dalla schiavitù, portarono con sé senza aver avuto il tempo di farlo lievitare. Un particolare che ci permette di riconoscere, nell’Ultima Cena di Gesù, proprio un seder pasquale, è legato al afigomàn: l’ultima matzeth. Questa, infatti, viene divisa tra i commensali dopo aver pronunciato la benedizione di fine pasto: gli stessi gesti che i Vangeli raccontano abbia compiuto Gesù, il quale: “Preso il pane, rese grazie”. Un altro particolare è invece legato al vino. Leggiamo infatti che: “Allo stesso modo, dopo la cena, prese il calice”. Si trattava del terzo calice di vino prescritto per il seder. Quattro sono infatti le coppe di vino che devono essere consumate nella cena di Pesach: la prima per santificare l’inizio del pasto, la seconda per celebrare la liberazione dall’Egitto, la terza come benedizione finale per chiudere il pasto e la quarta ed ultima recitando i salmi di lode (hallel). Le ultime vicende terrene di Gesù vengono presentate dai Vangeli con toni tali da conferire a questo momento – che dovrebbe essere di festa – una crescente drammati¬cità. Ma è bene ricordare, che il Vangelo più antico, quello di Marco, è stato scritto tra il 70 e il 72, cioè 40 anni dopo la crocifissione. Quello di Luca attorno all’85, quello di Matteo attorno al 90 e il più recente, quello di Giovanni, attorno al 110. La caduta di Gerusalemme aveva segnato la scomparsa dello Stato Ebraico e gli evangelisti si rivolgevano a proseliti di origine ellenistica e a cittadini romani. Appare quindi naturale che cercassero di prendere le distanze dagli Ebrei, un popolo odiato da Roma a causa della pervicace tenacia dimo¬strata nell’opporsi alla sovranità romana. Rivolgere il benché minimo rimprovero ai Romani per aver perseguitato l’ebreo Gesù, averlo dichiarato colpevole per un crimen maiestatis meritevole di morte, averlo condannato e crocifisso secondo il diritto ro¬mano, avrebbe potuto far scattare misure repressive. Eppure proprio la Legge Ebraica ci permette di scorgere le incongruenze insite nel racconto degli Evangelisti. Secondo la stessa, infatti, era proibito celebrare pro¬cessi nei giorni festivi e nelle vigilie. Inoltre le udienze dovevano essere pubbliche e svolgersi nell’atrio del Tempio. Infine, per condannare a morte un imputato, non bastava la sua confessione, ma era necessario che vi fossero due testimoni a confer¬mare la veridicità dell’accusa e chi aveva bevuto quattro bicchieri di vino non poteva andare in tribunale. Secondo i Vangeli, Gesù è stato arre¬stato la notte in cui si svolgeva la festa di Pesach, è stato interrogato di notte in una casa privata e condannato senza testimoni d’accusa (trattandosi della notte del seder, infatti, quattro bicchieri erano senz’altro stati bevuti nel corso della cena). La narrazione degli ultimi giorni del Nazareno va letta tenendo presente che Gesù fu arrestato dalla polizia romana, giudicato e condannato dal procuratore romano, Pilato o un altro. Purtroppo il testo evangelico, elaborato sotto il potere di Roma, lasciò un terribile segno d’odio e l’accusa di “deicidio” perseguitò per duemila anni gli Ebrei ed è ancora dura a morire. Resta significativo il fatto che l’istituto cristiano dell’Eucarestia sia scaturito proprio dal ricordo della ritualità del Seder Ebraico, dalla benedizione del pane e del vino tipici di ogni famiglia Ebraica di quel tempo. L’agnello pasquale diviene l’Agnus Dei… La matza diviene il corpo spezzato di Gesù. Le erbe amare divengono il simbolo dell’amarezza della sua morte… Infine il vino diviene il sangue di Gesù, che viene versato per la remissione dei peccati.

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Echi di civiltà alimentari d’Oriente

Non spetta a me, non-musulmano e cristiano solo per nascita, avventurarmi in letture dell’Islàm di carattere teologico o dottrinale. Non è nelle mie capacità e non rientra nelle mie aspirazioni. Mi accontento di tentare di comprendere il rapporto tra l’uomo e il “sacro”, leggendo dietro e dentro alle credenze e ai comportamenti di un ogni gruppo umano per capirne le motivazioni psicologiche e politiche, individuali e sociali che appartengono alla sfera ultraterrena. Le cause e le origini di qualsiasi istituzione collettiva, fanno sempre riferimento al contesto (storico, culturale, ambientale) in cui l’istituzione è nata e si è sviluppata. Perché una religione è soprattutto un organismo-condiviso che ruota intorno a valori e significati propri della condizione umana e che si esprime attraverso atti rituali e culturali che si trasformano da prassi a identità. Come il cibo.

 

Ho un debito di sincera gratitudine con Mahmoud M. Al-M. che nei pomeriggi dello scorso giugno a Jeddah mi ha benevolmente intrattenuto sotto un sole  feroce, raccontandomi le radici storiche e culturali della sua Religione fino a non farmi sentire negato il comfort più ragionevole dell’aria condizionata. Grazie a lui ho trovato lo stimolo per mettere ordine – sempre e solo come antropologo e tendenzialmente come ghiottone – nella mia parziale e talvolta malintesa visione di un Islàm forse difficile da accettare ma straordinariamente ricco di etica e morale.

 

 

 

 

 

 

 

ALLE RADICI DELL’ISLAM

Il termine “Islàm” significa letteralmente “sottomissione”. Ciò significa che i credenti, accettano di arrendersi completamente al volere dell’Unico Dio (Allah), creatore, reggitore e salvatore del mondo. La volontà di Dio a cui l’uomo deve sottomettersi è stata resa nota attraverso il Corano (Qur’an), rivelato al messaggero divino Maometto (Muhammad), l’ultimo della schiera dei grandi profeti che comprende Abramo, Mosè, Gesù e molti altri ancora. Per essere considerato un “vero credente” è sufficiente avere la certezza della verità espressa nella semplicissima formula del credo (”Shahadah“): “Non vi è altro Dio al di fuori di Dio e Maometto è il profeta di Dio“.

L’Islàm è la religione con il più forte trend di aumento al mondo. Nel ventesimo secolo i suoi seguaci sono aumentati da 150 milioni a 1 miliardo 400 milioni, con un ritmo di espansione strabiliante di 21 a 1 rispetto al cristianesimo. Nella UE 15 milioni di persone (due terzi degli immigrati) sono di fede musulmana. Nel nostro paese vive e lavora più o meno 1 milione di Islàmici, provenienti soprattutto da Marocco, Albania, Tunisia, Egitto e Senegal. Di questo popolo di “nuovi cittadini italiani” non più del 10% frequenta la moschea il venerdì ma tutti hanno una forte coesione spirituale attorno ai cinque pilastri dell’Islàm:

  1. La testimonianza (shahada)

Consiste nel testimoniare, appunto, l’ unicità di Dio e che Maometto è  il Profeta da Lui inviato. La testimonianza fa parte delle parole da pronunciare durante le preghiere quotidiane e rappresenta il “cuore” del credo Islàmico

  1. La preghiera (salat)

La “salat” si effettua cinque volte al giorno in precisi momenti della giornata: alle prime luci dell’alba, al mezzogiorno, prima del tramonto, durante il tramonto e nel corso della notte. Per svolgerla correttamente i fedeli devono eseguire le abluzioni rituali ed essere rivolti con il viso verso Mecca

  1. L’elemosina (zakat)

La “zakat”, è l’ elemosina legale, e consiste nel donare ai bisognosi, a fine anno, una percentuale fissa dei propri averi, sia che essi siano denaro o altri tipi di proprietà, in ogni caso beni utilizzabili per scambi commerciali. Ovviamente, è esentato dal versare la “zakat” chi ha un reddito basso e chi possiede poco. Questa pratica, aiuta i credenti ad evitare l’ avarizia, ed ovviamente è utilissima per aiutare i bisognosi ai quali è destinata.

  1. Il digiuno (saum)

Nei pilastri dell’ Islàm, indica il precetto da compiere durante il mese di Ramadan. Dall’alba al tramonto i credenti si astengono dal cibo, dalle bevande, dai rapporti coniugali, dal fumare, ed evitano il cattivo comportamento in generale. Il digiuno ha lo scopo di autodisciplina e incita al buon comportamento.

  1. Il pellegrinaggio (hajj)

L’ “hajj” si esegue recandosi a Mecca con l’intenzione nel cuore di compiacere Allah e dev’essere compiuto, per chi ne ha la possibilità economica e fisica, almeno una volta nella vita. Durante l’hajj i fedeli indossano una veste fatta di un unico pezzo di stoffa non nuova di colore bianco senza cuciture e indossando soltanto calzature tipo sandalo o ciabatta.

 

Il mercato europeo dei cosiddetti prodotti halàl, ovvero “leciti” per il Musulmano, ha fatturato circa 20 miliardi di euro. Questo settore pare essere uno dei più promettenti a livello planetario, con un incremento annuo costante del 15%. La Francia e la piazza più fiorente per la vendita di cibo, farmaci e cosmetici halàl, anche se Gran Bretagna Belgio e Germania non hanno nulla da invidiare. E a livello globale si parla di guadagni costantemente in crescita che ormai sfiorano i 200 miliardi di dollari l’anno. Addirittura in alcune nazioni, in Francia per esempio, i giovani Musulmani hanno visto comparire sulle loro tavole pizza e lasagne halàl.

Il successo del cibo halàl merita di essere compreso un po’ meglio. Sempre più le organizzazioni Islàmiche richiedono che nei luoghi pubblici (mense, refezione scolastica, ospedali) sia possibile avere cibo halàl. Lo esigono come un’espressione della libertà di religione: “ognuno ha il diritto di mangiare secondo una sua religione”. Giusto, logico… ma da più parti si ritiene che l’impulso al consumo di cibi halàl rappresenti l’ultima frontiera dell’identità Islàmica in Occidente. Per un Musulmano che lavori in Italia o in Francia, la preghiera cinque volte al giorno è difficilmente praticabile, il velo alle donne non è sempre ammesso e anche il digiuno del Ramadàn risulta difficile da rispettare in considerazione dei ritmi lavorativi e delle differenze socio-culturali con i paesi Islàmici. Mangiare halàl è dunque un modo, fortunatamente non l’unico, per riconoscersi come credenti.  Di questo approfittano i leaders Musulmani più intransigenti, che cercano di imporre la carne halàl per serrare i ranghi, per contarsi e sicuramente anche per autofinanziarsi. Tuttavia il Corano dice letteralmente: “La carne della gente del libro (Ebrei e Cristiani) è lecita per voi”(V, 5). Tutte le fatwe (sentenze) finora diffuse dicono che i Musulmani possono mangiare la carne macellata da Cristiani, perché la loro carne è halàl. Esiste anche una fatwa di un riformista egiziano, Muhammad Abduh, che già agli inizi del Novecento rendeva lecito il consumo di carne macellata dagli Ebrei, le cui regole di macellazione sono molto simili a quelle Islàmiche. Purtroppo il fondamentalismo, nel tentativo di aumentare lo strappo politico e culturale con l’Occidente, va in senso contrario e spinge i fedeli a enfatizzare ogni elemento distintivo della religione Islàmica, col solo scopo di fare pressioni in senso politico sui governi.


 

HARAM E HALÀL

Le regole alimentari dell’Islàm sono in piena sintonia con i divieti e le prescrizioni ebraiche, avendo in comune con queste la localizzazione geografica e climatica originaria e un importante background sociale di tipo nomadico.  Per Ebrei e Musulmani gli animali si dividono in due categorie: quelli vietati per natura e quelli vietati per le modalità con cui sono morti o sono stati uccisi. Fra i primi va ricordato anzitutto il maiale, mammifero antagonista alimentare dell’uomo e poco adatto alla vita nomade in quanto dotato di arti corti inadeguati a spostamenti. La sua carne è facilmente contaminabile da parassiti e la sua difficile conservazione non ne fa certo un cibo adatto in ambiente caldo-umido. Come il maiale sono harām (proibiti) tutti gli animali che hanno i denti canini, ovvero i carnivori, cosiccòme gli uccelli rapaci che hanno gli artigli. Fra i pesci sono illeciti quelli senza pinne e squame.

Al secondo gruppo appartengono gli animali morti di morte naturale e quelli non macellati secondo il rito Islàmico. In base a questo, dapprima occorre pronunciare sulla vittima il nome di Dio, poi orientarla verso la Mecca. La macellazione halàl deve essere effettuata in locali e con utensili e personale separati e diversi da quelli impiegati per la macellazione ordinaria; il macellaio deve essere un Musulmano adulto, sano di mente e a conoscenza di tutti i precetti della religione Islàmica e sulla macellazione lecita; gli animali da uccidere devono essere animali leciti e devono poter essere mangiati da un Musulmano senza commettere peccato; gli animali devono essere vivi al momento dell’uccisione, che deve avvenire recidendo la trachea e l’esofago, mentre la colonna vertebrale non deve essere decisa e la testa dell’animale non deve essere staccata. L’uccisione deve essere fatta in una sola volta e il movimento del taglio dev’essere continuo e cessare quando il coltello viene sollevato dall’animale; il dissanguamento deve essere spontaneo e completo; infine la macellazione deve iniziare solo dopo accertata la morte dell’animale.

La macellazione Islàmica è legata a regole pertinenti sia al Corano sia alla Aid el adha (Festa del sacrificio), giorno in cui i Musulmani ricordano la storia di Abramo a cui Dio aveva ordinato di offrire il figlio Isacco in olocausto. La celebrazione prevede che ogni famiglia sacrifichi pubblicamente una capra e disponga della carne nel seguente modo: un terzo del sacrificio in beneficenza per sfamare i poveri, un terzo da consumare con amici e parenti e un ultimo terzo da assegnare a chi celebra il sacrificio. Il rito è senza dubbio cruento, agli occhi degli occidentali  lo sgozzamento di un animale sulla pubblica via non può non sollevare turbamento e proteste da parte di animalisti e non. Nulla e nessuno può vietare a un Islàmico la propria professione di fede ma vista la particolare natura della cerimonia, la morale comune e le leggi sanitarie richiedono richiede che questa avvenga almeno in strutture adeguate e igienicamente idonee come i macelli pubblici. D’altronde, perfino in Arabia Saudita, dove al termine del pellegrinaggio alla Mecca vengono macellati milioni di capi ovini e bovini, le autorità impongono che il tutto avvenga all’interno dei mattatoi pubblici.

IL VINO E IL CORANO: PROIBITO E CANTATO

Un altro divieto alimentare dei Musulmani è quello che riguarda il vino e le bevande alcoliche. Di fatto il Corano contiene versetti che vanno dall’approvazione totale, nel periodo meccano, alla risoluta condanna nel periodo medinese. Il versetto 67 della sura XVI lo esalta: “E dei frutti delle palme e delle viti vi fate bevanda inebriante e buon alimento; e certo è ben questo un segno per la gente che sa ragionare”. Per contro il versetto 219 della sura II lo sconsiglia: “Ti domanderanno ancora del vino e del maysir (gioco d’azzardo). Rispondi: C’è peccato grave e ci sono vantaggi per gli uomini in ambo le cose: ma il peccato è più grande del vantaggio”. Ha prevalso il secondo, in base alla regola del diritto Islàmico dell’abrogato e dell’arrogante, per la quale se due versetti si contraddicono prevale quello più recente (le sure sono in genere numerate in ordine inverso alla cronologia).

Nel 1986 i consumi di bevande alcoliche  nel mondo Islàmico si erano dimezzati. Dieci anni dopo, nel pieno dell’offensiva del terrorismo Islàmico, si era scesi a due terzi di litro a testa. Le ultime stime rivelano che il consumo medio è balzato a 1,8 litri. Indice di un recupero dell’identità laica che ha caratterizzato le società arabe dopo la nascita degli Stati nazionali sulle ceneri dell’Impero Turco-ottomano. Il 97% delle vendite di alcolici in Egitto riguarda la birra. Dei 125 milioni di litri di birra prodotti, 75 milioni sono di birra halàl e 50 milioni di birra alcolica. Il boom si ebbe nel 1998: con complessivi 56 milioni di litri, raddoppiando la produzione dell’anno precedente.

Nella laica Turchia il consumo di alcolici è 10 volte quello dell’Egitto a parità di numero di abitanti. Nel 2003 la produzione complessiva è stata di 928 milioni di litri, con un incremento del 9% rispetto all’anno precedente. Di questi circa 780 milioni sono di birra. Anche in Marocco la vendita di alcolici è cresciuta del 4,6% nel 2003, con la birra che rappresenta il 72% del mercato e il 44% del fatturato, in considerazione del fatto che costa poco rispetto al vino e superalcolici. L’altra novità è che la produzione di alcolici nei paesi Islàmici – come qualsiasi altra merce che deve competere in un mercato globalizzato – tende a migliorare sempre più sul piano della qualità. Il Coteaux de l’Atlas, il vino più prestigioso prodotto dall’azienda marocchina Les Cellier de Meknès (40 milioni di litri annui), ha ottenuto la medaglia d’argento dell’Unione degli enologi francesi nel 2004. Lo Chateau Tellagh, prodotto nella regione algerina di Medea dall’azienda statale Oncv (Ufficio Nazionale d’Impulso alla Viticoltura), ha vinto il Premio della giuria nella Esposizione vinicola di Montreal del 1998. In Tunisia, dove una legge di Stato regolamenta l’industria vinicola fin dal 1957, si producono vini di qualità come l’Imperial Magnus Rouge. D’altronde tutto il bacino mediterraneo, già millenni prima di Cristo, produceva vino e birra. Nell’aprile 2008 un articolo dell’Islàmologo integralista Youssuf al-Qaradawi in cui era scritto che “non c’è nulla di sbagliato nel consumare bevande che contengono una percentuale minima di alcol”, aveva fatto sperare alcuni in un’apertura, ma il teologo ha ben presto ribadito il precisato dal suo sito personale (www.quaradawi.net), che non è lecita nemmeno una goccia di bevande inebrianti.

L’alcol è sempre stato presente nel mondo arabo antico. Esiste addirittura un genere letterario, noto come khamryyat, traducibile in “odi bacchiche”, che annovera insigni poeti tra cui Abu Nuwàs nell’VIII secolo. Tramandato ai posteri come libertino, sodomita, ubriacone e poeta di corte, Nuwàs visse alla corte del Califfo delle “Mille e una notte” Harùn ar-Rashìd e di suo figlio al-Amìn.

“Se ci mescolassi luce, essa si mescolerebbe
con lui, e ne nascerebbero altre luci
e fulgori.
Circola quel vino tra i giovani, cui si piega
docile il destino, dando loro soltanto
le sorti da essi volute”.
Il vino è “profumo del mondo”:
“Un vino cui padre è l’acqua, e madre
la vigna, e nutrice la calura
meridiana bollente.
…..
Vino ebreo di lignaggio, Musulmano
di territorio, siro di esportazione,
iracheno di nascita.
E’ del paese dei Magi, ma ha lasciato
I suoi correligionari, per odio del fuoco
che presso di loro si attizza.”

Probabilmente il più celebre cantore del vino in poesia fu il matematico, astronomo, filosofo e poeta persiano Omar Kayyām (1048-1131). Le sue rubaiyyàt (quartine) da mille anni non cessano di sedurre l’umanità con la loro dolcezza, la loro gioia, la loro tristezza esistenziale e la loro inestinguibile sete di Assoluto. 

Se aver puoi sol per te un pane di bianco frumento,

Due colme pinte di vino, un coscio d’agnello sugoso,

E qualcuna, dolce al cuore, in un paesaggio deserto:

Ecco un gaudio che non può ghermire alcun Sultano.

….

Nella sfera dei Cosmi, cui notte fonda niuno ha sondato,

V’è una coppa, offerta a turno, cui tutti è dato a bere.

Quando il tuo verrà, non gemere di tristezza.

Bevi quel vino in gioia, ch’è la tua volta di bere.

….

Donati a opere di Bene, segui la Legge divina,

Non negare al prossimo equa parte di tuo pane.

Non sparger l’altrui sangue, e rispetta l’altrui campo:

L’altro Mondo è tuo! Parola! – Per ora, versa il Vino!

 

Nel poema Il vino mistico, in cui il vino è inteso come il mezzo che conduce a Dio, il sufi Ibn al-Farid nel XII secolo esclamò: “Dicono: hai bevuto il peccato! Nient’affatto, ho bevuto ciò che sarebbe peccato abbandonare! (….) Non vi è vita in questo mondo per chi è sobrio, chi muore senza aver provato l’ebbrezza ha vissuto invano”. Il vino appartiene quindi alla storia dell’Islàm, non solo, ma anche alla letteratura araba e Islàmica ed è quindi solo il dilagare dell’estremismo Islàmico che lo ha trasformato nel massimo dei tabù.

 


IL RAMADÀN

Ramadàn è il nome del nonno mese del calendario lunare Islàmico, in cui il Musulmano pratica il digiuno, che è uno dei cinque pilastri dell’Islàm. Secondo la tradizione Islàmica Maometto lo ha definito così: “Vengono aperte le porte del Paradiso, e chiuse quelle del Fuoco, e i demoni vengono legati”. E ancora: “chi digiuna si rallegra quando rompe il digiuno, e si rallegrerà del digiuno fatto quando incontrerà il suo Signore”. Anche la pratica del digiuno è stata ereditata dagli Ebrei e dei Cristiani che popolavano la penisola arabica in epoca preIslàmica. Tant’è vero che inizialmente Maometto stabilì che si dovesse digiunare un giorno in più del digiuno degli Ebrei per lo Yom Kippur, il nono e il decimo giorno del mese di muharram (primo mese del calendario Islàmico). Tuttavia nel secondo anno dell’Egira fu stabilito il digiuno per l’intero mese di Ramadàn. Si tratta di un mese sacro perché, nella cosiddetta Notte del destino, vi fu rivelato il Corano. Il digiuno va osservato nelle ore diurne e consiste nell’astensione dal cibo, bevande, fumo e rapporti sessuali dall’alba al tramonto. Tutti i cinque sensi devono essere mortificati per atto di padronanza di se stessi e gesto di obbedienza a Dio: non si può dare al corpo né nutrimento né piacere. Di notte, invece, si può.

Nei paesi Islàmici l’interruzione del digiuno al crepuscolo e occasione di celebrazioni riunioni familiari. Il digiuno è inteso sia come disciplina spirituale – poiché l’uomo, obbedendo al volere di Dio, si avvicina a Lui e ne ottiene l’approvazione – sia come disciplina sociale, in quanto avvicina, almeno un mese all’anno, i ricchi ai poveri. Alla fine del digiuno si celebra una delle due grandi feste musulmane, il Id al-saghir. Le prescrizioni concernenti l’astinenza sono date dal Corano nella sura II, versetti 183-185: “Nelle notti del digiuno vi è stato permesso di accostarvi alle vostre donne; e se sono una veste per voi e voi siete una veste per loro. Allah sa come ingannava che voi stessi. Ha accettato il vostro pentimento li ha perdonati. Frequentatele dunque e ricercate quello che Allah vi ha concesso. Mangiate e bevete finché, all’alba, possiate distinguere il filo bianco del filo nero; quindi di giornate fino a sera. Ma non frequentatele se siete in ritiro nelle moschee. Ecco i limiti di Allah, non li sfiorate!”.

In una giornata tipica di Ramadàn il Musulmano si sveglia che è ancora buio. L’astinenza deve iniziare un quarto d’ora prima del normale appello alla preghiera dell’alba. Prima, bisogna fare due cose: mangiare per poter affrontare le ore del digiuno e pronunciare una dichiarazione di intenti che precede tutti i cinque appelli alla preghiera. Al tramonto, quando si sia in un paese Islàmico, l’astinenza viene interrotta dall’annuncio del muezzin. A Gerusalemme, l’iftar, “l’interruzione”, è annunciata dallo sparo di vecchio cannone inglese. A quel punto si usa mangiare di nuovo dei datteri e bere dell’acqua ma solo dopo un’altra breve preghiera. Nella notte il fedele e libero da ogni astinenza.

Nei paesi a prevalenza musulmana in molti tendono a cambiare gli orari della loro attività, ma mai a fermarle. I negozi per esempio, aprono e chiudono sfruttando la sera più che il giorno. Nei paesi dove i Musulmani sono immigrati, come in Italia, dato che il digiuno indebolisce, ci sono aziende che durante il Ramadàn modificano i turni di lavoro in modo da facilitare i dipendenti Islàmici per poter farli mangiare al crepuscolo.

Non tutti i credenti sono tenuti a digiunare ci sono parecchie eccezioni. Nel Corano si legge: “Iddio non imporrà a nessun’anima pesi più gravi di quelli che possa portare” (II, 286). Nella vita si inizia a partecipare all’astinenza con la pubertà. E qui viene spontaneo ricordare quanto accade talvolta nelle scuole italiane in cui si chiede da parte di associazioni Islàmiche o famiglie musulmane che i bambini possano digiunare. Ebbene, per quanto riguarda l’età della pubertà le varie scuole giuridiche Islàmiche differiscono: per gli shafiiti, gli hambaliti e gli hanafiti l’età è stabilita da 15 anni, per i malachiti a 18 anni. Malachiti sono ad esempio la gran parte degli algerini. Tra loro c’è Khalida Messaoudi, ministro della Comunicazione e della Cultura algerino, che in Una donna in piedi scrive: “più tardi quando ero al liceo e avrei dovuto praticare il digiuno, mia nonna me ne ha dispensato. Mi diceva, lei che non era mai andata a scuola, che se uno studia, per Dio il Ramadàn è lo studio.” Fra gli adulti sono dispensati i malati, chi è in viaggio, gli anziani che potrebbero correre rischi per la loro salute, i malati di mente. Le donne sono esentate se in gravidanza o in fase di allattamento è invece esplicitamente proibito fare astinenza durante il ciclo mestruale che durante il puerperio. Uomini e donne una volta ritrovata la salute o arrivati a destinazione, devono recuperare il mese o i giorni perduti.

Il Ramadàn è un mese di carità, quindi se si interrompe l’astinenza, ci si può riscattare offrendo un pasto a dei Musulmani bisognosi o donando l’equivalente in denaro. Ma si può anche scegliere di fare un’astinenza compensatoria che dura 60 giorni. Tuttavia l’astinenza rituale osservata nel mese di Ramadàn non ha alcun valore se non è accompagnata da una serie di gesti da compiere e di cattive azioni da evitare, come litigare, rimproverare, calunniare gli altri, mentire, concepire desideri che contravvengono ai precetti del Corano. Le opere buone, durante il mese di Ramadàn, vengono considerate doppiamente meritorie.

Secondo il Corano, durante il Ramadàn non si devono uccidere né esseri umani né animali. Il precetto è però stato trasgredito più volte dagli estremisti Islàmici, che hanno anzi trasformato il periodo del Ramadàn in un appuntamento con la vendetta e la morte come dimostrano i comunicati legati all’Islàm jihadista in corrispondenza del Ramadàn oppure gli attentati suicidi nel settembre 2008 in Algeria, Gerusalemme e Islàmabad.

 


 

PER UNA LETTURA NON DOGMATICA DELL’ISLÀM

La popolarità delle rivelazioni suscita scandalo. Accadde a Cristo crocifisso dai Romani (non sicuramente dagli Ebrei…) e fu così anche con Maometto sei secoli dopo, costretto a fuggire di notte dalla sua città per rifugiarsi a Medina e scampare così alle ire di chi lo considerava un pericoloso sobillatore, un rivoluzionario ingrato. Entrambi, Cristo e Maometto, sono stati portatori di un messaggio che era soprattutto una dichiarazione di guerra alle idee dominanti e allo stato di cose esistenti. Entrambi sostenevano di aver ricevuto mandato da Dio per ricondurre un popolo sulla retta via. Ed entrambi conobbero da subito un rifiuto pressoché totale, un fallimento annunciato. Eppure nel volgere di pochi anni “il primo Messia” e “l’ultimo dei Profeti” sono riusciti a convertire e a trasformare con incredibile efficacia le rispettive comunità d’appartenenza. I dodici apostoli di Cristo sono diventati due miliardi e i settanta seguaci di Maometto quasi altrettanti.

Considerato per molti secoli dall’Occidente cristiano un eretico e un impostore – quando non addirittura l’Anticristo – per il mondo arabo Maometto è sempre stato un modello di virtù e di comportamento. La singolare forza della sua personalità, sfugge ad ogni tentativo di univoca caratterizzazione e si impone nella storia combinando l’elemento mistico con quello politico e amministrativo.

Per una comprensione della storia più antica dell’Islàm, è necessario sapere qualcosa sulle condi­zioni di vita dell’Arabia prima della nascita di Maometto (Abū l-Qasīm Muammad ibn `Abd Allāh ibn `Abd al-Muţţalīb al-Hāshimī), avvenuta a Mecca il 26 aprile del 570 d.C. almeno secondo fonti storiche tradizionali. L’Arabia preIslàmica era divisa in due parti: una era l’“Arabia Felix” dei Romani, identificabile con le attuali regioni dello Yemen, dell’Hadramawt e dell’Oman terra fertile e ricca d’acqua; l’altra comprendeva lo sterminato deserto arabico, punteggiato di oasi e abitato dai nomadi beduini. La maggior parte degli abitanti dell’attuale Arabia Saudita apparteneva allora a tribù nomadi, per quanto non mancassero gruppi stanziali, soprattutto in piccoli centri, com’era allora Mecca. I nomadi si procacciavano sostentamento pascolando cammelli, pecore e capre, uniche attività consentite dalle contingenti – ora come allora – condizioni ambientali dell’entroterra: clima desertico, secco, con temperature quotidiane molto elevate, brusche escursioni termiche notturne e rare precipitazioni, generalmente scarse e imprevedibili. La parte della penisola arabica che si affaccia sul Mar Rosso gode da sempre di un clima migliore, le precipitazioni sono abbastanza regolari e le temperature sono più miti anche se l’umidità dell’aria raggiunge spesso il 100%. Dopo un intenso perio­do di pioggia alcune aree si coprono ancora per qualche settimana di una lussureggiante vegetazione. Di questo vantaggio approfittavano nel VI° secolo alcune tribù nomadi che trasferivano le greggi in queste aree fino a quando la vegetazione si esauriva. In capo a qualche settimana però uomini e animali erano costretti a fare ritorno in oasi con un minimo di pozzi e arbusti disponibili tutto l’anno. Vi era una sorta di intesa sul territorio in cui una tribù aveva il diritto di pascolare, e più una tribù era potente più era facile per lei mantenere questo diritto con la forza; di conseguenza, quando una tribù diventava troppo debole, poteva fare appello a una tribù più forte per avere sostegno e protezione e relazioni di questo tipo erano co­muni.

I nomadi arabi si dice avessero molti dèi, ma ciò non sembra aver avuto particolare significato per loro. Essi cre­devano fermamente che gli eventi principali della vita di un uomo fossero determinati da una forza impersonale chiama­ta Tempo o Destino. Come afferma il Corano: «E dicono: “Non esiste che questa nostra vita terrena: moriamo, vivia­mo, e solo ci stermina il Tempo! “» (Sura 45:24). La credenza più profonda degli arabi del tempo sembra essere stata un «umanesimo tribale», alimentato dalla forte tradizione della poesia. I poeti celebravano le imprese di singoli eroi, ma si riteneva che queste dipendessero dalle alte qualità presenti nell’ambiente tribale piuttosto che da qualche virtù personale. La maggior parte degli arabi cre­deva che proprio l’identità tribale rendesse la vita degna di essere vissuta. Esisteva inoltre quello che si potrebbe chia­mare un codice etico, associato al sistema tribale, secondo il quale la tribù o clan nel suo insieme era considerato respon­sabile delle malefatte di uno dei suoi membri. Vigeva dunque la legge del taglione (ovvero la possibilità di infliggere al reo una pena uguale all’offesa causata), che portava spesso a lunghe e sanguinose faide. La coesione tribale e il welfare generale del gruppo era garantito anche dall’impegno del capotribù nel farsi carico dei membri più deboli della sua comunità.

Mecca godeva di una posizione piuttosto particolare. Non era un’oasi, ma vi era acqua sorgiva sufficiente per mantenere una piccola comunità stanziale. Questa si era raccolta attorno a un edificio sacro, la Ka’ba (letteralmente: cubo) che portava incastona­ta a 1 metro dal suolo, nell’angolo di Sud-Est, la cosiddetta «pietra nera» (al-hajar al-aswad) – sostanzialmente un meteorite – cui già in tempi preIslàmici erano attribuite proprietà divine. L’area attorno alla Ka’ba, detta Haram, era partico­larmente sacra e non poteva ospitare alcuna attività diversa dalla preghiera. Un vasto territorio attorno alla Mecca aveva ugualmente carattere sacro e all’interno di quest’area tutte le faide tribali erano sospese. Non lontano dall’Haram si tenevano dunque importanti fiere annuali che diventavano pacifiche occasioni di raduno per tutte le tribù nomadi. Fu grazie a questa concomitanza tra fede e affari che la modesta (per estensione) città di Mecca era già ben prima della nascita di Maometto un importante centro commerciale. Nel sesto secolo d.C., le continue guerre tra l’impero bizantino e quello persiano impedivano l’uso delle vie carovaniere che, attraverso l’Iraq, collegavano il Mediterraneo con l’India e il Golfo Persico. I mercanti della Mecca avevano tratto vantaggio da questa situazione e la maggior parte del commercio di spezie, incenso, tessuti e merci preziose, passava sui dorsi dei loro cammelli, dallo Yemen via la Mecca sino a Gaza, Damasco e Aleppo. Lungo questa rotta i mercanti controllavano anche molte altre attività, escludendo i non-meccani dal traffico carovaniero. Ne avevano tratto, di conseguenza, notevole ricchezza ma i loro costumi morali erano peggiorati. La morale tradizionale della Mecca era stata quella delle tribù nomadi, ma non si era rivelata sem­pre adatta per una comunità dedita al commercio. I mercan­ti preferivano avere come soci d’affari membri di altri clan piuttosto che del proprio e spesso trascuravano i tradizio­nali doveri del capo clan di provvedere agli individui più poveri e più sfortunati del loro stesso gruppo.

Nel VI° secolo quasi tutti gli abitanti della Mecca appartenevano alla tribù dei Quraysh, divisa in una dozzina di clan che a volte si riunivano in gruppi di due o tre in contrasto tra loro. I comuni interessi commerciali, comunque, impedivano ogni scontro serio tra clan. Maometto apparteneva al clan degli Hashim, di cui era stato capo suo nonno. Il padre di Maometto, `Abd-Allah, mer­cante a sua volta, era morto a Medina sulla via del ritorno da un viaggio in Siria, quando la moglie Amina, era incinta. Il futuro Profeta dell’Islàm rimase precocemente orfano anche di madre che, nei suoi primissimi anni, l’aveva affidato a una balia apparte­nente a una tribù nomade. Quella di mandare a svezzare i figli tra i beduini era una situazione abbastanza comune a quel tempo in quanto la vita nel deserto era ritenuta più salubre per i bambini di Mecca. Dopo la morte di Amina, Maometto fu accudito per due anni dal nonno e quindi dallo zio che lo fece partecipe di alcuni viaggi d’affari in Siria e lo iniziò ai primi rudimenti del commercio. Durante uno di questi viaggi, una ricca vedova, Khadija, gli affidò l’incarico di sovrintendere ai suoi beni. Soddisfatta del modo in cui il giovane aveva ottempe­rato all’incombenza, Khadija gli si offrì in matrimonio ed egli accettò. Maometto non disponeva di capitali propri poiché non era permesso a una persona al di sotto di una certa età di ereditare alcunché dal padre e dal nonno (usanza che aveva la sua origine nell’ambiente nomadico, poiché ovviamente un minore non poteva accudire un greg­ge di cammelli). Ma dopo il matrimonio e grazie al capitale della moglie, Maometto poté iniziare a dedicarsi al commercio in proprio e a tempo pieno. Almeno fino a quando, all’età di circa quarant’anni, in una caverna del monte Hira, presso Mecca (dove aveva l’abitudine di ritirarsi per breve tempo ogni anno), fece una straordinaria esperienza spirituale che lo spinse a dedicare l’esistenza a far conoscere il Dio unico in un ambiente politeista come quello arabo.

A partire dal 610 Maometto si presentò nella sua città natale come profeta scelto da Dio per comunicare all’umanità l’ultima rivelazione, trasmessagli da Dio attraverso l’arcangelo Gabriele. Iniziò a predicare uno “scomodo” monoteismo e a condannare come immorali le statue collocate in onore delle varie divinità attorno alla Ka’ba. Esortava un profondo rinnovamento dei costumi a cominciare dalla indegnità dell’adulterio, fino alla consuetudine araba di seppellire vive le neonate in quanto fonte di costi e inadatte al lavoro mercantile o pastorale. Non contento, chiedeva il distacco dalle ricchezze e una vera giustizia sociale verso orfani, vedove e poveri. C’era di che infastidire seriamente i ricchi e arroganti abitanti di Mecca che misero in atto una serie di persecuzioni anche violente contro Maometto e i suoi seguaci. Nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 622 il gruppo di “sovvertitori” dell’ordine e della morale imperante, fugge a Yathrib, 400 chilometri a nord di Mecca. Questo evento, l’Hijra (egìra, letteralmente migrazione) segna l’inizio del calendario Musulmano. Da quel momento Yatrib divenne Madīnat al-Nabī, “la città del Profeta”: Medina, in cui Maometto si trova nelle condizioni per realizzare il suo progetto religioso, sociale e politico. Comincia a organizzare la città e la convivenza sociale, si adopera per trasformare le norme dei beduini trasmesse dalla tradizione orale in una legislazione vera e propria.

Da Medina Maometto comincia l’espansione militare e politica e in 10 anni è protagonista di 19 guerre utilizzate per stringere nuove alleanze e per procurare mezzi economici e militari per la causa dell’Islàm. Nel 630 rientra a Mecca senza spargimento di sangue. Ma esige la distruzione degli idoli costruiti attorno alla Ka’ba. In breve tutta la penisola arabica si converte all’Islàm e chi si sottomette a Maometto lo riconosce come governante e al tempo stesso come profeta inviato da Dio. Ancora oggi all’interno del mondo musulmano si dibatte su quale sia il “vero Islàm”, se quello elaborato alla Mecca e caratterizzato da una forte impronta spirituale, oppure quello di Medina di natura spiccatamente sociale e politica.

 

IL DEBITO NON PAGATO CON L’ISLÀM 

Quando non si possiede la dote di definire se stessi con distaccata onestà si ricorre a un termine di paragone. Nel peggiore dei casi non c’è di meglio che valersi di qualche antagonista. Il “diverso” è il miglior candidato ad essere il paradigma del “peggio”. Per questo gli storici e cronisti più viscidi e servili – che sono stati e sono la maggioranza – hanno dovuto inventarsi il contraltare alla nostra presunta civiltà: il volto “tirannico” per la Persia, quello “selvaggio” per i Celti, uno “infido” per Cartagine e uno “barbarico per le culture germa­niche e asiatiche. Oggi tocca all’Islàm, arabo o magrebino, integralista o riformista che sia. Il diverso – per religione, cultura, lingua, colore della pelle, abitudini alimentari o solo per taglio di capelli – è il soggetto ideale attorno al quale creare grotteschi fantasmi, paure irrazionali, sbigottimenti insensati. A dar ragione a chi vede nell’Islàm una minaccia anziché una risorsa, ci pensano quelle infelici fazioni di deficienti che usano la religione contro la stessa “parola di Dio” in cui si aggrovigliano. Almeno per mutuo tornaconto do­vremmo ripercorrere la nostra storia comune, dotandoci di diverse e più adeguate chiavi di lettura. A cominciare dall’attualità di un processo storico antico di 13 secoli. Chi ama abbinare l’Islàm a questo o quel tiranno, alla miseria di questo o quell’emigrante, di questo o quell’e­sponente di un preteso fondamentali­smo, finge di dimenticare quante terrificanti dittature abbia, an­che di recente, saputo esprimere il “civile” Occidente, quanto disperato sia il volto di tanti nostri emigrati, quanta seduzione ancora suscitino i­deologie di divisione, di odio e di morte nel vecchio continente.

A coloro che osannano alle leggi liberticide su cui il nostro governo basa il più ignobile e anticristiano dei consensi, va ricordato che il principio di totalità nel nazismo proveniva dalla “razza”. E lo Stato era il mezzo per realizzarne la purezza.

Spiacerà la mia analisi a Calderoli, a Borghezio, a Bossi, a Maroni, ai sindaci-sceriffi del nordest, al premier bountykiller e a quanti spingono a favore di una chiara restrizione dei diritti individuali e negano al “diverso” il rispetto della persona. Spiacerà a lor-s’ignori sapere quanto grande sia il debito contratto dall’Occidente nei confronti dell’Islàm e quanto i nostri antenati abbiano vissuto per secoli (e in pace) a contatto con una cultura, quella Islàmica, di altis­simo profilo tecnologico e scientifico.

Il fascino esercitato sulle più vivaci menti della Cristianità e la dipenden­za verso i dirimpettai mediterranei fu tale che, in campo medico, fisico, matematico, astronomico, astrologi­co, alchemico, filosofico e tessile l’Occidente non fu davvero per molti secoli più di una colonia culturale dell’Oriente Islàmico. Non m’importa ribadire la probabile origine arabo-spagnola della poesia rimata, né intrattenermi sull’influenza Islàmica nell’archi­tettura o nel campo della decorazio­ne (basti pensare all’arabesco o all’in­tarsio). Mi preme però sottolineare come buona parte della filosofia dell’antica Grecia sia stata recuperata proprio grazie all’a­zione di studiosi dell’Oriente Islàmi­co, anche se spesso non musulmani. Fu infatti grazie allo stimolo delle autorità omayyadi, o di quelle abba­sidi, che nella cosmopolita Corte nor­manno-sveva e nella duecentesca Scuola di Toledo si tradussero in ara­bo o dall’arabo numerose opere gre­che, d’epoca classica e d’età ellenisti­ca, occasione di partenza per la rina­scente scienza europea che, in tal modo, poté sfruttare le speculazioni di Aristotele o di Tolomeo.

Ciò non significa che l’ambiente Islàmico fosse portatore solo di opere altrui e che i suoi studiosi non fosse­ro in grado di produrre direttamente scienza. Per convincersene sarebbe sufficiente citare l’immenso contribu­to apportato alla medicina (la Scuola Salernitana annoverava non a caso un magister Abdela — ‘Abd Allah — fra i suoi quattro mitici fondatori), o il Canone di Avicenna (ibn’Sina), il Liber Conti­nens di Razi (Rhazes) o il Liber Regius di ‘Ali Abbas al­-Magiusi: tutti capisaldi della scienza medica oc­cidentale fin al XVII secolo.

Si potrebbe ricordare come “algebra” derivi dall’arabo al-jabr (connessione, ordine) e per la parola “algoritmo” si sia debitori al matematico arabo al-Khwarizmi.

Un suo contemporaneo, al-Battani (Albatenius), calcolò con stupefa­cente precisione l’obliquità dell’eclit­tica, la durata dell’anno tropico e l’orbita solare, fornendo – a Copernico prima e a Galileo Galilei dopo – il retroterra scientifico da cui è scaturita la moderna astronomia.

Che dire poi del contributo Islàmico in campo scientifico, nella fisica (idraulica e ottica innanzi tutto), nell’alchimia — avanguardia della moder­na chimica — e in molte altre discipli­ne scientifiche… 

Ma anche nel campo della cultura materiale l’Islàm si è saputo gua­dagnare non piccoli meriti. Se già il contatto con i musulmani insediati nel vecchio continente com­portò un deciso miglioramento delle tecniche idrauliche, è grazie a loro che da secoli anche noi occidentali possiamo gustare arance, limoni, ce­dri, banane, riso, canna da zucchero, melanzane, carciofi e spinaci e, per reintroduzione, uva, olive, albicocche e meloni. Tutto ciò ha consentito di variare significativamente una dieta cui un gran numero di spezie ha dato poi ancor maggior sapidità: noce mo­scata, cannella, zucchero di canna, chiodi di garofano, zenzero, sesamo, carda­momo e zafferano.

L’impatto sulla nostra gastronomia fu tanto importante da farci riconoscere una tendenza generale all’esotismo culinario nell’Europa me­dievale, secondo un processo di ac­culturazione che influenzò stabilmen­te anche il nostro modo di stare e servire in tavola. Ziryab, un raffinato musicista approdato nel IX secolo al­la corte omayyade di Cordova dalla rivale Baghdàd, prese infatti l’abitudi­ne di servire cibi ai suoi commensali, da lui forniti di preziose posate, cominciando con calde zuppe di cereali e legumi, seguiti da piatti “forti” a base di carne o pesce, concludendo con portate di frutta e, dulcis in fundo, con sorbet­ti e paste a base di frutta secca e miele, secondo uno schema che non tarderà ad affermarsi negli ambienti più colti dell’Europa cristiana. Il tutto annaffiato da bevande versate in fini calici di cristallo, il cui processo di fabbricazione è attribuito al suo coe­taneo ‘Abbas Firnàs.

 

L’impatto della lingua araba sul lessico di varie lingue europee è ancora evidente. Fondamentale per la lingua spagnola – a causa della protratta convivenza Islàmico-cristiana nella penisola iberica – ma per nulla trascu­rabile sul nostro idioma. Non parlo solo dei tanti arabismi del siciliano ma di quelli presenti nella nostra lingua nazionale che ospita non pochi e significativi termi­ni d’origine araba e, in minor misura, persiana o turca.

Ammiraglio (amir al-bahr, coman­dante del mare); darsena e arsenale (dar as-sina’, fabbrica); caracca (har­raqa, nave incendiaria); monsone (mawsim, stagione); sciabica (sha­baka, rete) hanno intuitivamente a che fare col mare, da cui spesso arrivaro­no le incursioni di “saraceni” e “tur­chi”. Al debito agricolo e idraulico sono collegabili il carciofo (khurshuf), la melanzana (badin­giàn), l’albicocca (al-barquq), lo zuc­chero (sukkar), il limone (in persiano limùn), l’arancia (narangh), il ri­so (ruzz), il latte cagliato (yo­gurt in turco), lo zafferano (z’afaràn), lo zi­bibbo (zabìb), il candito (qandi), il giulebbe (gulabh), il cotone (qutun), il caffè (in turco qahvè), la caraffa (qaràba), la tazza (tasa) o la giara (giarra).

 

Il lascito arabo nei dizionari scientifici e nella nomenclatura della strumentazione è altrettanto esteso. Da cifra e zero (sifr) al modo di tracciare i nostri numeri — definiti im­propriamente “arabi” ma più corretta­mente mutuati dall’India —, da al­manacco (al-manah, calendario), al già citato algoritmo, fino ad alchimia (al-­kimya’), ad alcool (al-kohl, spirito), ad alcali (al-qali, sostanza basica), ad alambicco (al­inbiq), ad atanòr (al-tannur, fornace) o a elisir (al-iksir, pietra filosofale), mentre ze­nit (samt, direzione), azimut (as-sumut, plurale di samt) e nadir (nazir, opposto di samt) ci introducono alla volta stella­ta. Se è chiara l’origine della mus­solina (Mossul) o del damascato, in ragione di un protratto dominio Islàmico nel settore tessile – confermato da “ricamo” (raqm, disegno), “taf­fettà” (persiano. tafté, tessuto) o scialle, (persiano, shal) – meno palese è la genesi di altre parole, specialmente se si trovano fuori dal loro logico contesto, come per esempio “taccui­no” (taqwìm, corretta disposizione).

 

Parole, solo semplici parole, che mostra­no però quanto comuni siano certe conoscenze e quanto sia in errore chi pensi che il nostro (?) sapere di oggi sia il frut­to di sforzi autarchici. La vitale saldatura fra civiltà Islàmica e civiltà occidentale si fece a partire già dalla fine del X° secolo, piaccia o meno ai nostri e ai loro integralisti.

 

L’Oriente culinario 

Secondo la teoria anglo­sassone i confini dell’Oriente si estenderebbero dal Medi­terraneo al Mar della Cina, abbracciando diverse zone prive di una comune radice culinaria. Una nozione meno schematica e più contemporanea di “Oriente” deve comprendere anche altri territori caratterizzati da un’alta omogeneità culturale, quali quelli della coltura del grano nella regione del Punjab fino alla barriera del Pamir in Asia Cen­trale, ampliandosi verso sud e sud-ovest fino allo Yemen e spingendosi all’Egitto e al Maghreb. A nord e nord-ovest la demarcazione è più difficile da tracciare, poiché la frontiera attraversa il Caucaso, la Grecia e i Balcani, tutte aree in cui sono palpabili le conseguenze culinarie della loro lunga storia.

All’interno di questi confini, esiste una base comune di alimenti e di preparazioni gastronomiche che trova la sua ragion d’essere nell’omogeneità climatica e geografica. Un po’ ovunque si apre lo stesso paesaggio semidesertico, interrotto da zone fertili, massicci poco elevati e oasi verdeggianti, dove le aree coltivate grazie all’irrigazione si alternano a zone di pascolo magro. In questo grande spazio, le differenze regiona­li non sono trascurabili. Ma se si confrontano le proposte di droghieri, trattori o ristoratori armeni, iraniani, libanesi, egiziani, greci, turchi, algerini ecc. affiora un’indiscutibile omogeneità. Del substrato comune emergono le spezie abbondanti, l’acqua di rose e i colori vivaci delle presentazioni, l’uso di frutta fresca e secca nella preparazione di piatti a base di carne o dolci, le cotture al burro chiarificato, la frittura in olio di pesci e pasticceria. Il gusto per lo zucchero è piuttosto universale, come anche quello per i condimenti di verdure in salamoia. Si apprez­za, ma non esclusivamente, il pane schiacciato non lievitato e le focac­ce farcite, fatte di sottili sfoglie di pasta. E se esistono importanti diffe­renze nella preferenza o disponibilità di prodotti cerealicoli di base (grano intero, farina, semola, bulgur, riso, orzo, miglio), le paste di gra­no (vermicelli, plombs, langue d’oiseau…) sono cucinate come i chicchi dei cereali. In questo Oriente culinario si fanno zuppe dense di carni, ortaggi e leguminose, accompagnate da pasta o cereali; si preparano stufati con salse piuttosto grasse, si schiaccia la carne per fare delle pol­pette, si farcisce il pollame, l’agnello, le frattaglie, gli ortaggi e persino la frutta. Sciroppi e confetture sono molto apprezzati, si offrono des­sert di amido, zucchero e latte e si servono dolci fritti con miele e sci­roppo, o cotti al forno con zucchero e frutta secca. Più o meno di recente, sono gli stessi alimenti americani (pomodoro, peperone, zuc­china, fagiolo, patata, paprika) a imporsi. Ovunque domina il gusto per la carne di montone, lessa, arrosto, essiccata o candita e per i latticini. Cosa normale, in un comune paesaggio di colline fertili e zone semide­sertiche che lascia spazio alla vita nomade al seguito delle greggi. L’in­fluenza della pastorizia è una grande componente del gusto orientale.

Questo substrato comune si è costituito storicamente sulla base del­le specie e dei prodotti diffusisi dal centro di espansione dell’agricoltu­ra. In seguito ha integrato i contributi provenienti dalla periferia, attra­verso l’espansione dei regni e degli imperi che ampliano i propri rap­porti commerciali, diffondono i prodotti e i gusti e unificano ampi spa­zi. Due grandi espansioni hanno avuto un ruolo fondamentale: la crea­zione di un mondo iranizzato dagli Achemenidi tra il Mediterraneo e l’Indo e l’unificazione dell’Islam. Questi due fenomeni hanno contri­buito a far accettare le specie e i prodotti giunti da est attraverso l’In­dia, come lo zucchero, il riso e numerosi frutti e legumi.

L’importanza rivestita dalle specie indigene è tuttavia rimasta fonda­mentale. La loro origine si concentrava attorno a due zone principali, il cui aspetto è molto cambiato dalla nascita dell’agricoltura. I cereali (grano, farro, orzo, spelta, segale) crescevano in una fascia di praterie alberate che dal Giordano si estendeva verso la parte nord del bacino dell’Eufrate e discendeva lungo i monti Zagros verso la provincia di Fars. A nord di questa «Mezzaluna fertile», che attraversava una vasta foresta caduca intorno ai laghi Van e Ourmia, si trovava un’altra zona di praterie, che si estendeva dal Mar Nero verso l’Indo-Kush passando per le zone pedemontane a sud del Caucaso. Più a nord, una zona boschiva secca costeggiava i pendii del Caucaso. Da queste due zone ha origine la frutta fresca (albicocca, ciliegia, pera, mela, mela cotogna, melagrana, vite, fico, ribes, melone, mora) e la frutta secca (mandorla, noce, nocciola, pistacchio, castagna) della cucina orientale. Una localiz­zazione precisa sembra difficile da attribuire alle altre specie domesticate attorno a questo polo: piante aromatiche (aglio, cipolla, aneto, anice, asa fetida, carvi, cerfoglio, coriandolo, cumino, dragoncello, menta, origano, papavero, zafferano, sommacco, mostarda nera, fieno greco, rosa, cannabis), ortaggi e radici (barbabietola, carota, pastinaca, rapa, spinacio, cetriolo) o animali (montone, asino, bue, capra).

Potremmo situare il centro alimentare dell’Oriente nella zona a sud del Caucaso, esattamente dove nacquero le prime civiltà urbane 6000 anni fa. Questa regione oggi semidesertica che raggruppa la Turchia e l’Iran, 3000 anni fa era il regno di Urartu a nord dell’Assiria, prima di diventare il paese dei Medi ed essere infine incorporata all’Iran da Dario, andando a formare il regno d’Armenia poco prima dell’era cri­stiana, e tornare sotto l’Iran sassanide ecc. Prima zona a essere disbo­scata dagli agricoltori, la regione si è probabilmente desertificata nei primi millenni dell’agricoltura per assumere una fisionomia geoclima­tica simile a quella attuale. Questo ha portato alla diffusione dell’irri­gazione e ha favorito forse una migliore acclimatazione di alcune spe­cie sulle nuove terre dissodate d’Europa copiosamente irrorate dalle piogge dell’Atlantico.

Prima che dall’Iran nasca, nel 550 a.C., il primo grande impero dell’’antichità, i confini di sovranità degli Stati rimanevano in ambito regio­nale. Le loro risorse alimentari erano pressoché le stesse, ad eccezione delle ricchezze specifiche o delle difficoltà locali di messa a coltura.

Situato alla periferia del centro d’espansione, l’Egitto sembra non aver mai avuto alcun ruolo nella creazione o diffusione del gusto in Oriente o nel Mediterraneo. Curioso destino per un paese tanto anti­co e prestigioso avere un’immagine culinaria globale quasi nulla. Ai nostri giorni, sotto l’Impero ottomano di cui era una provincia, sotto i Fatimidi che hanno lasciato la città del Cairo e un periodo di prospe­rità, sotto Bisanzio o Roma, sotto i Tolemei o le antiche dinastie, que­sto grande paese agricolo esportatore non viene mai menzionato come un paese dalla cucina rinomata. Tuttavia, l’arte e la decorazione fune­raria sono ricche di dettagli della vita quotidiana che ritraggono scene di vita di coltivatori e pescatori, il lavoro dei cuochi, dei panettieri, dei birrai e vignaioli e offrono molte immagini di prodotti alimentari e banchetti.

Le tavolette d’argilla originarie della Bassa Mesopotamia (II millen­nio) sono i più antichi documenti culinari noti in tutto il mondo. I pro­dotti utilizzati in cucina erano di origine locale, dal momento che la Mesopotamia non importava derrate alimentari dall’estero. Al pari dell’Egitto, si faceva un grande consumo di pesce e maiale, ma meno di bestiame e prodotti più locali (datteri, olio d’oliva, crostacei, frutti di mare…). Le tavolette menzionano molte ricette (soprattutto prepara­zioni in brodo), alcune delle quali sono ricche di dettagli. Non sappia­mo esattamente perché queste ricette siano state consegnate su queste tavolette, dal momento che i cuochi erano di certo analfabeti. È possi­bile che servissero per un uso rituale o come “pasti di offerta” alle divinità. Cercarvi un legame con la cucina praticata a Baghdad all’epoca del suo massimo splendore sarebbe un’operazione azzardata, poiché le principali carat­teristiche che emergono dalla loro traduzione e interpretazione non ci portano in quella direzione. C’è una certa somiglianza di ingredienti, ma in numero più ridotto, con quelli usati 2500 anni più tardi. Tuttavia, queste ricette testimoniano già una tecnica culinaria elaborata. Per esempio, il fondo di cottura a base di acqua o birra, grasso e piante aro­matiche, nel quale si cuoceva la carne prima di aggiungervi pollame o pezzi scelti. Oppure la bianchitura e brasatura preliminari (quindi cot­ture multiple) e l’addensamento del brodo (legatura?) con sangue o pasta sbriciolata. I pezzi di carne dovevano essere tagliati con il coltel­lo per servire. Le ricette usavano generalmente una grande quantità di agliacei (aglio, cipolla, porro…), erbe e prodotti vegetali secchi, prodot­ti fermentati del latte o cereali.

Un millennio più tardi, le descrizioni assire ci riportano verso il centro culinario del Vicino Oriente, in una regione dove si beve forse meno birra rispetto all’Egitto e alla Bassa Mesopotamia e dove la vite e il vino hanno un ruolo importante nei rituali e nella vita quotidiana. Nella parte nord del corso dell’Eufrate, settantamila persone nel 879 a.C. furono invitate alla festa per la ricostruzione della città di Kalah vici­no Ninive. Di questa festa che durerà dieci giorni e che testimonia l’importanza attribuita al banchetto nella regione, non viene detto nulla riguardo la cucina e i cuochi, ma alcune iscrizioni forniscono det­tagli sulle impressionanti quantità di cibi e bevande ad essa consacrate. L’elenco riflette le disponibilità del posto: carne di montone soprattut­to, pane e ceci, condimenti e carne salata, miele, gelatine di frutta, bur­ro chiarificato e olio, poco pesce e latticini, abbondanza di uva e mela­grane, uso di frutta secca e semi per i condimenti, uso abbondante di piante aromatiche fresche e secche della regione (in media 8 grammi al giorno per persona) e diecimila otri di vino.

 

 

Tre secoli più tardi, il nord della Mesopotamia diventerà una divisione ammi­nistrativa (satrapo) dell’Impero achemenide, che si estenderà dall’Asia Minore (Anatolia) all’Indo, compreso tutto il Levante, l’Egitto e il sud del Caucaso. L’Impero svilupperà il commercio in Asia, apren­dosi alle influenze dell’Indo, la cui provincia occupata era un’impor­tante fonte di guadagno. Non rimane alcuna testimonianza culinaria dell’epoca, eccetto un’iscrizione nel tempio di Ciro a Persepoli. Sco­perto durante la campagna di Alessandro (nel 325 a.C.) e trasmesso da Polieno, l’elenco inciso nel bronzo (accanto ai testi di legge) enu­merava i bisogni alimentari del palazzo. Si trattava per la maggior parte di ingredienti ancora oggi in uso nella cucina dell’Iran: grano, orzo, montone e agnello, bue, uccelli, pollame, selvaggina, latte e lat­ticini, piante aromatiche, grassi di cottura, frutta secca ecc. Sulla lista’ figura in particolare la conserva di melagrana acida, lo zafferano, il cumino, l’aneto, il mosto d’uva, il succo di mela dolce, i ravanelli bolliti in salamoia, i capperi sotto sale «per le salse acide», gli oli di terebinto, acanto e mandorla dolce. Inoltre viene riportato che il re faceva distribuire alle sue truppe una considerevo­le quantità giornaliera di cereali e orzo, oltre all’olio di sesamo e ace­to. Questa «lista di provviste» serviva per preparare piatti al contem­po acidi (aceto, conserve, succo), dolci (concentrati di frutta) e aro­matici (erbe e spezie). Lo zucchero e il miele non sono citati, ma a questo proposito Ero­doto non lascia dubbi sulla propensione degli iraniani per il dolce: «Mangiano pochi piatti principali ma molti dolci, non tutti serviti nello stesso momento (poiché essi accompagnano i primi), per questo dicono che i greci, quando sono a tavola, si alzano ancora con la fame, perché dopo il pasto vero e proprio non si serve loro nulla che sia veramente degno di pregio; ma che se qualcosa di simile venisse loro servito, non finirebbero più di mangia­re». Poiché essi consumano subito ciò che si presenta loro come dessert: dun­que per i persiani il dessert non serviva per appagare l’appetito ma per «solle­ticare la gola».

La lista di cibi rinvenuta a Persepoli è piuttosto sudcaucasica; la cucina che ne deriva è vicina a quella apprezzata 1000 km più a nord, una cucina forse più distante dai gusti locali della Mesopotamia, dell’Egitto o anche dell’Indo, che ignoriamo quasi completamente, ad eccezione del gusto antico per le spezie e la frittura. Questi elementi sono evidentemente insufficienti per affermare che il primo impero ira­niano ha diffuso ovunque un certo modello di gusto; essi dimostrano semplicemente che la capitale aveva la possibilità di scegliere le proprie fonti di approvvigionamento. Seppure con qualche compromesso riguardo al vino, di cui si faceva un consumo considerevole. Il palazzo ne acquistava cinquanta volte il volume di burro chiarificato e cento volte quello dell’olio di sesamo, ma quando il re risiedeva a Susa o a Babilonia (zone più calde, dove crescono i palmeti e non la vite), tale quantità era per metà vino di palma e per metà vino d’uva. Il Grande Re sapeva vivere. Ecco cosa scrive Parmenio ad Alessandro, dopo che questi gli aveva affidato l’incarico di occupare Damasco, e in quell’oc­casione si era impossessato degli effetti di Dario: «Ho trovato 329 concubine, musicisti del re, 46 uomini occupati unicamen­te a fare ghirlande e corone, 277 cuochi, 29 garzoni di cucina, 13 pasticceri, 17 uomini per la preparazione di bevande, 70 uomini incaricati di filtrare il vino, 40 profumieri».

 

Le iscrizioni di Kalah e Persepoli non sono le prime testimonian­ze del consumo di vino. Esso forse è antico quanto la coltivazione del­la vite iniziata 6000 anni fa in un’area di crescita spontanea che va dal Mar Nero al Khorasan, costeggiando il sud del Caucaso e del Mar Caspio’°. I magnifici rython, coppe fatte di corno, o raffiguranti un toro, sono molto numerosi nelle collezioni dei musei. In Iran, i più antichi attestano l’uso del vino almeno 3000 anni fa. La libagione all’e­poca era un atto sacrificale attraverso il quale si nutrivano gli dei: la forma di queste coppe mostra che il vino era usato come sostituto del sangue versato con il sacrificio di un toro. Il banchetto ben innaffiato dal vino non aveva quindi solo una componente di piacere, era anche una necessità culturale. Quest’antica pratica affondava le radici in un passato indoeuropeo antico almeno quanto i Luviti e gli Ittiti (inizio del II millennio a.C.). In queste due lingue indoeuropee, infatti, il ter­mine che designava il sacrificio era legato alla libagione. Ma nei ritua­li la libagione non sostituiva l’offerta. Dal sacrificio dell’animale si sperava in un effetto magico, si tentava di trasferire l’impurità dell’uomo sull’’animale sacrificato. Il banchetto serviva per offrire un pasto agli dei, i quali dovevano essere nutriti dagli uomini. Gli assistenti vi prende­vano parte e gli dei erano nutriti da una libagione di sangue, il liquido che racchiude la vita e l’anima di un essere. La libagione si effettuava versando il liquido (dapprima sangue dell’animale, in seguito vino) in un buco praticato nel terreno. Bisogna dunque tenere a mente questa tradizione quando si leggono i commenti degli autori greci sull’eccesso di vino consueto tra i persiani achemenidi. In particolare quanto detto da Erodoto:

«Per il vino i Persiani hanno una vera passione. A loro è vietato vomitare e urinare di fronte ad altri; e rispettano accuratamente questa norma, ma hanno l’abitudine di discutere le questioni più serie in stato di ubriachezza; le decisio­ni eventualmente prese vengono riproposte il giorno seguente, da sobri, dal padrone della casa in cui si trovano a discutere».

Questa abitudine era ancora in uso mille anni più tardi nell’Iran dei Sassanidi. Gli stessi autori greci hanno inoltre sottolineato, nelle descrizioni degli usi e dei costumi iraniani, i fasti e le ricchezze dei ban­chetti, il piacere di vivere e l’amore per le donne. Ateneo fa numerosi riferimenti in proposito ed Erodoto pensa che gli iraniani abbiano pre­so gusto ai piaceri in quel paese della cuccagna che era la Lidia (sud­ovest dell’Anatolia) in seguito alla vittoria su Creso nel 540 a.C.

Dopo le conquiste di Alessandro, e l’intermezzo dei Seleucidi e dei Parti, i Sassanidi (224-642 d.C.) ricostruirono l’antico impero iraniano dalla Mesopotamia Nell’XI secolo, quando furono scritte le cronache dei re di questa dinastia, sappiamo che in Iran ancora si pra­ticava lo hazm, un banchetto rituale durante il quale si facevano liba­gioni di vino a suon di musica. Il banchetto durava tre giorni nella for­ma più solenne e veniva organizzato in occasione di avvenimenti importanti (partenza per la guerra, per esempio) o di feste annuali (il nuovo anno tra le altre). In quest’occasione a palazzo si beveva il «vino reale», servito in rhyton d’oro, d’argento o di ceramica. Il vino era allo­ra chiaramente considerato il sostituto del sangue del sacrificio in un rito esplicitamente legato alla tradizione religiosa dei Zoroastriani.

Probabilmente il vino non era riservato ai soli uomini né esclusivo dei rituali. Alcuni pezzi di vasellame suggeriscono la presenza al ban­chetto di danzatrici e persino di coppie. Il vino non era neppure riser­vato solo ai principi. Al-Taalibi riporta in proposito un aneddoto sul regno di Bahrúm V (420-438): una volta che il re «fu saldamente inse­diato al potere, che ebbe distribuito i governi e si fu liberato degli affa­ri, si abbandonò al piacere di incontri intimi e alla compagnia delle don­ne, si lasciò andare alle passioni della giovinezza e sommò l’ebbrezza del potere a quella del vino». Un giorno gli presentarono un resoconto sui discorsi del popolo, il quale mormorava che il re non pensava che a bere e ad abbandonarsi ai piaceri e alle orge. Egli allora scrisse questa nota: «È il costume dei re quando regna la pace e i sudditi vivono nell’ab­bondanza». Lo stesso re, volendo per i suoi sudditi ciò che desiderava per se stesso, si accollò le spese destinate al divertimento e alle libagioni del popolo. Poiché più nessuno lavorava, dovette far proclamare un’or­dinanza: «Guadagnatevi da vivere dal sorgere dell’aurora fino a mez­zodì, e abbandonatevi poi al piacere del bere in società».

 

Il lusso dei Sassanidi ha forse superato quanto allora era conosciu­to in Medio Oriente. E non furono gli ultimi re ad essere meno sfar­zosi: gli storici arabi raccontano che oltrepassato il Tigri e presa Cte­sifone nel 637, gli Arabi si fossero impadroniti di un bottino straordi­nario. Essi distrussero i palazzi più lussuosi, mentre il re Asgard fuggi­va con la sua corte «e mille cuochi al seguito…». La “Storia dei Re di Persia” di Al-Taalibi fornisce alcune interessanti indicazioni che lasciano immaginare le capacità di quei numerosi servitori. Scritto in arabo nell’’entourage (e forse su richiesta) di Mahmud de Ghazni all’inizio dell’XI secolo, in un contesto culturale fortemente iranizzato, questo testo cita diversi piatti serviti alla corte di Balash (484-488), tra cui «il piatto del re» che consisteva in carne calda e fredda, carne in gelatina, carne all’aceto, pesce in gelatina, carne con riso, pollame marinato, foglie farcite, purea di datteri allo zucchero candito, o ancora «il piatto dei Dihqans», fatto di carne di montone salata, a fette con succo di melagrana e uova cotte.

Al-Taalibi riporta inoltre un testo che ritroviamo con alcune varianti in numerosi manoscritti e che sembra una sorta di gio­co di società per testare le conoscenze dei partecipanti in materia di buon gusto. E un gioco (probabilmente immaginario) di domande e risposte tra il re — Khosro I (531-579) o Khosro II (590-628), a seconda delle versioni — e il suo servitore «dai gusti raffinati» sulle cose migliori della vita. Risposta del paggio riguardo «l’alimento più squisito tra i migliori»: il midollo e il tuorlo d’uovo. Ma il gioco è fatto per durare e l’elenco delle domande è piuttosto lungo. Esso ci porta a conoscenza delle seguenti preparazioni:

  • agnello da latte di due mesi servito con latticello bollito e adden­sato e una sorta di semola fermentata
  • petto di manzo grasso cotto nel brodo agro, servito con zucchero e zucchero candito;
  • pollame arrosto dopo essere stato marinato in salamoia e, in particolare il galletto domestico nutrito con semi di canapa, semola d’orzo e olio d’oliva;
  • numerosi piatti di carne fredda che nelle diverse versioni del testo e tra­duzioni assumono un aspetto un po’ confuso, ma dalle quali si evince l’esi­stenza di una categoria più ampia che comprendeva i piatti di carne fredda che potevano essere di manzo, asino, cervo, cinghiale, giovane camo­scio, vitello, bufalo, asino selvatico, maiale domestico. La carne migliore per questi piatti freddi era la carne di vitello nutrito con trifoglio e orzo, preparata con aceto e ben condita. Gli scarti servivano per fare una sorta di stufato condito con aceto freddo. Esistevano anche carni marinate servite come aperi­tivo (coniglio, uccelli, pollame…), la cui carne tagliata sottile era messa a mari­nare cruda nell’aceto, o talvolta passata rapidamente sul fuoco. Al-Taalibi ci dice che «la migliore gelatina» era quella delle carni delle giovani gazzelle, «tenere, tagliate a fette lunghe e sottili, marinate con aceto, mostarda, salamoia, aneto, aglio, carvi e cumino». È probabile che questi piatti freddi tutti più o meno a base di aceto — fossero anche gelatinosi, e che questa consistenza fosse molto apprezzata. In effetti, nella categoria dei piatti freddi presente nel suo trattato, Ibn Butlan fa le seguenti precisazioni: «A base di zampetto di bestiame sono migliori di quelli fatti di pesce, carne tenera e bianca e carne di mucca. I cuochi utilizzano l’aceto per fare una certa specie di gelatina con lazzeruola, fecola e zampetto di capretto da latte». Aggiunge che si poteva renderli più buoni unendovi del vino invecchiato e profumato;
  • diversi spuntini e stuzzichini salati serviti con il vino: pane freddo ripie­no di macinato di carne arrosto con aceto;
  • Ceci freschi con grasso d’otarda o di cervo fritto in olio di noci, pistac­chi bagnati in salamoia e arrostiti, frutta secca… Ma, aggiungeva il paggio, «con i semi di canapa di Nisahpur che sono fritti nel grasso di capra di montagna, nessuna frutta secca regge il confronto, perché è buona da mangiare, profuma­ta in bocca, molto leggera per lo stomaco ed eccellente anche per altro uso»
  • moltissimi dolci e dolciumi: lazen’àg (dolce tagliato a losanghe con zuc­chero, pasta di mandorle, olio di sesamo, pistacchi schiacciati), ftiloîtd’àg (ami­do, zucchero o miele), gelatina di mela e di mela cotogna, confetture varie (cetriolo, zenzero, mirabolano, noce, limone). Ma tra i migliori dessert figura­va: «la pasta fatta di farina di riso, latte fresco, grasso di gazzella e zucchero candito […], il dolce di pasta di noci preparato con olio di mandorle e scirop­po […], la polpa di cocco fresca con zucchero cristallizzato» o ancora «chicchi di melagrana dolce e melagrana acida con acqua di rose».
    • Dopo i dolci il re e il paggio proseguono con la scelta dei vini miglio­ri.

 

Questo semplice gioco di domande e risposte è ricco di insegnamen­ti: per esempio, ci fa sapere che il sapore agrodolce era ricercato (piatto di manzo caldo), che si preparava il brodo di cottura, che si facevano foglie farcite e carne cotta con il riso e che si usavano condimenti fer­mentati. Inoltre, potremo notare un uso consistente di aceto da mettere in relazione con l’abbondanza di vino e l’esistenza di numerosi piatti a base di carne fredda cotta in aceto, destinati ad accompagnare il nettare insieme ad altri stuzzichini salati. Mille anni dopo, l’impressionante quantità di dolciumi conferma le osservazioni di Erodoto e colloca indi­scutibilmente l’Iran sulla via delle dolcezze orientali. Si ricordi, infine, accanto ai piaceri del vino l’uso dei profumi e della cannabis.

 

La vittoria definitiva degli Arabi sull’Impero dell’Iran si compie nel 642. Gli eserciti del Profeta controllano tutta la penisola araba, la Siria, la Palestina e l’Egitto. L’espansione continua, mentre il Califfato degli Omayyadi si trasferisce da Medina a Damasco. Verso nord, Costantinopoli resiste e si concede una tregua di otto secoli. Verso Occidente, gli eserciti attraversano lo stretto di Gibilterra nel 711, risalgono fino a Poitiers e valicano i Pirenei solo nel 759. Verso est il Sind, al confine con l’ex impero sassanide, è occupato nel 712, mentre l’avanzata prosegue contemporaneamente in Asia Centrale, fermata infine dai Cinesi a Talas nel 751.

In poco più di un secolo si è dunque compiuto uno dei più straor­dinari sconvolgimenti geostrategici. Dopo oltre mille anni un confine fluttuante separava il Levante dall’insieme mediterraneo-orientale, a seconda delle vittorie e delle sconfitte dei Greci, Iraniani, Romani o Bizantini. Con le conquiste arabe, l’immenso insieme geografico che si estendeva dall’India alla Spagna viene unificato dall’Islam. Questo nuovo Oriente favorisce la circolazione e la migrazione di uomini, piante, tecniche di produzione e gusti culinari.

Da 2000 o 3000 anni, l’India svolgeva il ruolo di grande giardino di acclimatazione per le specie alimentari originarie dell’’Africa (sesamo, sorgo, miglio, fagiolo dall’occhio, tamarindo, angu­ria…) o del Sudest asiatico (riso, zucchero, noce di cocco, banane, citrus), specie che vanno ad aggiungersi a una ricchezza naturale di ortaggi e leguminose indigene. L’Iran era il serbatoio delle specie indiane o accli­matate in India. Il confine tra Iraniani e Romani viene cancellato dalle conquiste arabe, e si assiste a una progressiva diffusione della coltura del riso, della canna da zucchero, della banana, della melanzana, degli spina­ci, del limone e dell’anguria attraverso il Maghreb e verso la Penisola ibe­rica. Probabilmente tale diffusione va di pari passo con la crescita sulle coste mediterranee della domanda di altri prodotti già noti ma general­mente più apprezzati nel Vicino Oriente, in particolare le spezie.

L’agricoltura non era di certo il punto di forza delle tribù di beduini che dominano tutti questi territori: il più delle volte essi lasciano ragionevolmente al pote­re le autorità civili del posto e la libertà religiosa agli ebrei e ai cristiani. L’esiguo numero degli occupanti, d’altra parte, non avrebbe permesso loro di amministrare in prima persona quel vasto e nuovo impero. Il loro potere si esercita piuttosto attraverso la conversione e il clienteli­smo delle élites locali, che favorisce un vasto movimento di popolazio­ni al servizio dei nuovi padroni in tutta l’area conquistata. In questo contesto si diffondono verso Occidente le loro tecniche di irrigazione e di giardinaggio già sviluppate nelle zone semiaride dell’Asia Centrale e del Medio Oriente. Non solo penetrano in Occi­dente nuove specie, ma l’intera area conosce una differenziazione e un aumento della coltivazione di frutta, ortaggi e leguminose.

 

Tra le principali novità, la coltura del riso, senza dubbio nota agli Iraniani da oltre mille anni — almeno ai margini orientali e forse in Bat­triana — si estende e si sviluppa in Mesopotamia, nel sud della regione caspica, in Anatolia (Mar Nero e costa meridionale), a Fergana, ma anche nello Yemen, nella valle del Nilo, nel Fayum, nel sud del Maroc­co, in Sicilia e in Spagna a partire dall’XI secolo (Valencia e Maiorca). Prima del 1500 la coltura del riso si è estesa anche al di fuori del mon­do islamico: in Italia, sulla costa portoghese, a sud di Tolosa e a nord-ovest del Mar Caspio.

Anche il sorgo si diffonde nello stesso periodo: si mangiava lessato, tipo couscous, era presente nelle zuppe e nei dolci, e la sua farina veni­va mischiata a quella di grano per il pane delle classi povere. Quanto al couscous, ne giunge notizia solo dopo la conquista araba. Da questo si è potuto dedurre che la presenza nel Maghreb del grano duro (indi­spensabile alla produzione del couscous) fu il risultato di una diffusio­ne araba dalla terra di origine al sud-est del Mediterraneo. È comunque certo che il grano duro – una mutazione del grano selvati­co – era da tempo conosciuto e coltivato su entrambe le coste del Medi­terraneo.

È la canna da zucchero, insieme al riso, a conoscere Io sviluppo più significativo. La conoscenza dello zucchero in Occidente era anti­ca, poiché gli eserciti di Alessandro nel IV secolo a.C. scoprirono la canna sull’Indo (la famosa «canna al miele»). Lo zucchero era impor­tato a Roma almeno dal I secolo a.C. Gli Arabi diedero alla coltura del­la canna da zucchero una grande diffusione sulle terre dell’antico impe­ro sassanide, dove era certamente presente prima del loro arrivo. In questo modo comin­ciarono a riscuotere un dazio sullo zucchero in Mesopotamia al tempo del califfo Omar (634-644). Nell’XI secolo, questa coltura era già comune dal Sind all’Africa orientale e dall’Egitto alla Spagna.

Il cedro era coltivato dagli iraniani e conosciuto nel Mediterraneo prima dell’avvento dell’Islam (Sardegna, Napoli, Spagna), ma non è altrettanto certo che altre varietà di citrus fossero coltivate a est dell’’India prima delle conquiste arabe. Ad ogni modo, non esistono testi arabi che ne menzionano la coltivazione prima dell’inizio dell’XI seco­lo, quando l’arancio amaro e il limone diventano poco a poco comuni. L’introduzione dell’arancia dolce, del bergamotto e del mandarino è probabilmente più tardiva.

La melanzana e gli spinaci trovati in Iran sono anch’essi ampiamen­te diffusi tra il IX e l’XI secolo. Altre specie, come la banana, la noce di cocco o il mango, conosceranno un successo maggiore nelle zone tro­picali calde dell’Africa o dell’America rispetto al Mediterraneo, pur essendo la loro scoperta contemporanea. Queste piante penetreranno molto lentamente in Europa a causa dei rapporti conflittuali che divide­vano il mondo cristiano e l’Islam, tanto che i progressi agricoli arabi furono talvolta distrutti dalle riconquiste cristiane. Bisognerà attende­re il XVI secolo perché Io zucchero, il riso e i nuovi ortaggi entrino poco a poco nelle cucine della Francia e dell’Europa del nord.

A cura di

 grassoSergio Grasso Antropologo alimentare e critico

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FLASH NEWS SIMPOSIO ACCADEMIA

microfono Durante il mese di ottobre si è tenuto il simposio annuale dell’AIGS organizzato con grande passione dal Prof. Mario Giorgio Lombardi. Oltre ai numerosi laboratori e incontri tra ambasciatori, operatori del settore enogastronomico e giovani studenti delle scuole alberghiere, uno dei momenti più significativi è stata l’assegnazione del BLASONE di Ristorante dell’anno 2009 ex equo al IL BACHER – Berceto (PR) e MARIVA BEACH RESTAURANT & MORE – S.Vincenzo (LI) NOVITA’ EDITORIALI In questi giorni è uscito in libreria Tacuinum de’ Eccellentissimi la nuova pubblicazione di Alex Revelli Sorini e Susanna Cutini edita dalla Ali&no editrice. Il libro raccoglie 80 personaggi famosi (condottieri, filosofi, letterati, viaggiatori, papi, sovrani, artisti e celebrità) dal’Età Antica al XX secolo. Per ciascuno viene ricostruito un breve profilo gastronomico con ricette e preparazioni legate al loro gusto personale. APPUNTAMENTI Dal 6 all’8 novembre a Città di Castello (PG) si terrà la XXX ed. Mostra Mercato Nazionale del Tartufo Bianco. Ogni giorno nel programma sono previsti golosi Showcooking alle ore 12,00 e 18,30. Gli chef interpreti di ricette a base di tartufo saranno Alessia Uccellini, Shady Hasbun, Roberto Bendinelli, Fabio Fastelli, Palmiro Bruschi, Marco Mazzetti, Francesco Milano, Giuseppe Romano, Michele Marinelli e Natascia Trenti. Ricordiamo ai soci dell’Accademia che se interverranno potranno degustare gratuitamente le diverse preparazioni. FOCUS NEWS Novembre è il mese del tartufo pregiato. La nostra redazione ha deciso di dedicare a questo diamante della cucina il suo focus. buona lettura 🙂 Storia del diamante gastronomico – Tra i numerosi tesori naturali che l’italica penisola ci riserva, il tartufo è certamente uno dei più preziosi. Il mistero sulla sua provenienza ha eccitato le fantasie poetiche dei diversi autori e c’è chi ne ha attribuito la nascita allo scatenarsi di tuoni e fulmini. Tutti gli altri frutti sono figli della terra e della luce, questo è figlio della terra é del buio. Creatura tenebrosa, divinità strappata al regno delle ombre, non possiede nulla di ciò che vive e si ciba di sole: né rami, né foglie, né tronco, ne radici. La prima immagine a lui dedicata sembrerebbe l’iconografia del Tacuinum Sanitatis, conservata alla biblioteca Casanatese. L’opera illustra un paggio intento a raccogliere tartufi neri da porre in un cesto, e le poche righe descrittive parlano di “terra tufulae”, responsabili di provocare il “morbum melanconicum”. E’ il rinascimento l’epoca del trionfo del tartufo, che ignorato dalla tradizione popolare domina le mense aristocratiche con le ricette degli autori più prestigiosi. Fu in questa epoca che sembra Caterina de’ Medici fece apprezzare alla corte di Francia il tartufo bianco proveniente dall’Italia (nelle terre d’oltralpe ancora oggi si può solo sperare di trovare il nero). Il tartufo nasce e cresce in prossimità delle radici degli alberi, in particolare ama il pioppo, il tiglio, la quercia e il salice. L’autunno è il periodo del tartufo bianco (il più caro); da dicembre a marzo del tartufo nero pregiato; dalla fine dell’inverno e per tutta la primavera si può trovare il cosiddetto bianchetto o marzuolo, e durante l’estate lo scorzone. In cucina: il bianco dal profumo intenso esalta le sue qualità direttamente a crudo sulle pietanza pronte, quello nero invece sprigiona il suo sapore se cotto con gli ingredienti della ricetta. Re degli eccitanti -I Romani conoscevano e mangiavano le poco profumate terfezie, o “tartufi della sabbia” provenienti dall’Africa. All’epoca la loro origine rappresentava un enigma, Plinio le inseriva fra le piante prodigiose, e Apicio le proponeva nella sua raccolta di ricette. In Europa, per quasi tutto il Medioevo i tartufi non vennero considerati, ma dalla seconda metà del Quattrocento vi fu un’inversione di tendenza. Questi tuberi, specialmente i neri raccolti lungo gli Appennini, divennero in Italia un cibo ricercato e molto apprezzato dai potenti. Numerosi fonti indicano che si utilizzavano le scrofe per cercarli, e che erano cotti sotto la cenere o saltati in padella, per essere poi mangiati senza una precisa collocazione durante il pasto. In quel tempo ai tartufi s’iniziarono ad attribuire anche virtù afrodisiaca, e il medico Michele Savonarola li consigliava come alimento ideale per i vecchi che avevano una bella moglie. Platina, erudito dell’epoca, non solo assegnò al tartufo un alto potere nutritivo, ma lo definì: “un eccitante della lussuria… servito spesso nei pruriginosi banchetti di uomini ricchi e raffinatissimi che desiderano essere meglio preparati ai piaceri di Venere”. L’efficacia dei tartufi era così proverbiale da meritare una testimonianza letteraria di Pietro Aretino, riferita ad un vecchio che non riusciva a godere dei piaceri amorosi: “né per tartuffi, ne per carcioffi, né per lattovari puoté mai drizzare il palo, e se pur l’alzava un poco, tosto ricadeva giuso…”. Tutti i medici italiani del tempo concordavano sul potere afrodisiaco dei tartufi, e alcuni ciarlatani preparavano e vendevano con lauti guadagni elisir d’amore a base della sua essenza. I trattati italiani di gastronomia del Seicento parlano del potere rinvigorente del tubero come un fatto scontato, e la sua virtù non viene dimenticate neppure nelle memorie di Casanova. Secondo Brillat Savarin fino al 1780 il tartufo scarseggiava sopra le mense francesi, ma nel 1825 anno di pubblicazione della Fisiologia del Gusto, grazie alla corroborante fama il suo consumo era ormai diffuso. In Italia, nella seconda metà dell’Ottocento, Paolo Mantegazza nel libro “Igiene dell’amore”, elencando gli alimenti afrodisiaci, metteva in cima i tartufi. Poiché lo scienziato era il primo italiano a trattare e divulgare argomenti scabrosi, la sua notorietà diventata enorme contribuì a consolidare la fama del tubero. Negli ultimi decenni del Novecento è stata avanzata un’ipotesi scientifica sulla virtù di stimolante sessuale del tartufo. Secondo questa, il suo odore dovuto soprattutto all’androstenone, sostanza presente anche nel feromone del porco maschio, attirerebbe irresistibilmente le scrofe. Per analogia fra mondo animale e umano, si è ipotizzato che i tartufi avrebbero un effetto eccitante anche sul genere umano. Tartufi in tavola – Il tartufo ha avuto in cucina un posto d’eccellenza fin dall’antichità. Rappresentava una pietanza ricercata e pagata a peso d’oro da ricchi e nobili. I romani che ne erano molto ghiotti, lo chiamavano “funus agens” (portatore di morte), perché se mangiato in massicce quantità provocava indigestioni mortali.La prima traccia scritta di preparazioni al tartufo è di Apicio. Costui consiglia di conservarli sigillati in vaso in luogo fresco, tagliati a fette sottili, disposti a strati alterni con segatura secca. L’autore latino propone alcune ricette, delle quali una sola con tartufo a crudo: indica di bollirli in pentola con salsa di vino, olio e miele, oppure di bollirli e accompagnarli con una salsa a base di pepe, coriandolo, ruta, miele e olio. II tartufo del periodo era per lo più quello della Cirenaica, sembra la terfezia, con un’intensità d’aroma non certo paragonabile al tartufo italiano d’oggi. Durante il Medievo i tartufi subirono l’oblio culinario, anche se qualcuno riconosce in alcune righe del Petrarca la loro presenza. Fu nella gastronomia del XVI sec. che i preziosi tuberi andarono a ricoprire un ruolo di primo piano. Giovan Battista Rossetti, al servizio della duchessa d’Urbino Lucrezia d’Este nel 1554 pubblicò “Il libro dello Scalco” con varie preparazioni al tartufo. Baldassarre Pisanelli nel “Trattato della natura” del 1596 suggerisce di mangiare i tartufi cotti, con molto aglio, pepe, limone o in alternativa di cuocerli nel brodo grasso con cannella. Secondo il Castelvetro (XVII sec.) si deve avvolgerli in carta bagnata, cuocerli sotto la cenere, sbriciolarli, saltarli con olio, sale, pepe, per poi servirli con succo di limone o di arancia. I tartufi erano immancabili pure nei famosi banchetti del Re Luigi XVI, dove il Massaliot (1699) li proponeva abbinati a pernici, pollastre e capponi. Nel ‘700 avvenne il matrimonio del tartufo con altri cibi prelibati, come la salsa di ostriche di Francois Mann. Talleyrand, ministro degli esteri di Napoleone, era grande estimatore dei tartufi che usava assieme alle donne come arma di diplomazia: ai suoi ricevimenti non mancavano mai ricette “al tartufo” ideate da Careme. Anche nei grandi appuntamenti della storia questo alimento era presente: dal pranzo di conclusione del congresso di Vienna (1815 “croquettes d’esturgeon aux truffes”), al banchetto offerto nel 1896 dal presidente della Repubblica Francese allo Zar Nicola. Brillat Savarin lo riteneva il “diamante della cucina”, Gioacchino Rossini, “il Mozart dei funghi”, Auguste Escoffier “perla della cucina”, Pellegrino Artusi “simbolo del buon mangiare”. Proprio Rossini lo apprezzava nei tuornedos, oppure nell’insalata con radicchio, olio d’oliva, senape, limone, sale e pepe. Giuseppe Verdi, invece, lo mangiava a fettine nel timballo di pasta sfoglia, petti di pollo e purè di fegato profumato al Madera. Con il ‘900 il tartufo entrò diffusamente nella cucina borghese, diventando un piatto di mezzo: servito crudo, scaldato o nello champagne.

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Intervista uscita su informacibo

http://www.informacibo.it/focus/esposito1.htm

GianMaria-Le-Mura

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