Non spetta a me, non-musulmano e cristiano solo per nascita, avventurarmi in letture dell’Islàm di carattere teologico o dottrinale. Non è nelle mie capacità e non rientra nelle mie aspirazioni. Mi accontento di tentare di comprendere il rapporto tra l’uomo e il “sacro”, leggendo dietro e dentro alle credenze e ai comportamenti di un ogni gruppo umano per capirne le motivazioni psicologiche e politiche, individuali e sociali che appartengono alla sfera ultraterrena. Le cause e le origini di qualsiasi istituzione collettiva, fanno sempre riferimento al contesto (storico, culturale, ambientale) in cui l’istituzione è nata e si è sviluppata. Perché una religione è soprattutto un organismo-condiviso che ruota intorno a valori e significati propri della condizione umana e che si esprime attraverso atti rituali e culturali che si trasformano da prassi a identità. Come il cibo.
Ho un debito di sincera gratitudine con Mahmoud M. Al-M. che nei pomeriggi dello scorso giugno a Jeddah mi ha benevolmente intrattenuto sotto un sole feroce, raccontandomi le radici storiche e culturali della sua Religione fino a non farmi sentire negato il comfort più ragionevole dell’aria condizionata. Grazie a lui ho trovato lo stimolo per mettere ordine – sempre e solo come antropologo e tendenzialmente come ghiottone – nella mia parziale e talvolta malintesa visione di un Islàm forse difficile da accettare ma straordinariamente ricco di etica e morale.
ALLE RADICI DELL’ISLAM
Il termine “Islàm” significa letteralmente “sottomissione”. Ciò significa che i credenti, accettano di arrendersi completamente al volere dell’Unico Dio (Allah), creatore, reggitore e salvatore del mondo. La volontà di Dio a cui l’uomo deve sottomettersi è stata resa nota attraverso il Corano (Qur’an), rivelato al messaggero divino Maometto (Muhammad), l’ultimo della schiera dei grandi profeti che comprende Abramo, Mosè, Gesù e molti altri ancora. Per essere considerato un “vero credente” è sufficiente avere la certezza della verità espressa nella semplicissima formula del credo (”Shahadah“): “Non vi è altro Dio al di fuori di Dio e Maometto è il profeta di Dio“.
L’Islàm è la religione con il più forte trend di aumento al mondo. Nel ventesimo secolo i suoi seguaci sono aumentati da 150 milioni a 1 miliardo 400 milioni, con un ritmo di espansione strabiliante di 21 a 1 rispetto al cristianesimo. Nella UE 15 milioni di persone (due terzi degli immigrati) sono di fede musulmana. Nel nostro paese vive e lavora più o meno 1 milione di Islàmici, provenienti soprattutto da Marocco, Albania, Tunisia, Egitto e Senegal. Di questo popolo di “nuovi cittadini italiani” non più del 10% frequenta la moschea il venerdì ma tutti hanno una forte coesione spirituale attorno ai cinque pilastri dell’Islàm:
- La testimonianza (shahada)
Consiste nel testimoniare, appunto, l’ unicità di Dio e che Maometto è il Profeta da Lui inviato. La testimonianza fa parte delle parole da pronunciare durante le preghiere quotidiane e rappresenta il “cuore” del credo Islàmico
- La preghiera (salat)
La “salat” si effettua cinque volte al giorno in precisi momenti della giornata: alle prime luci dell’alba, al mezzogiorno, prima del tramonto, durante il tramonto e nel corso della notte. Per svolgerla correttamente i fedeli devono eseguire le abluzioni rituali ed essere rivolti con il viso verso Mecca
- L’elemosina (zakat)
La “zakat”, è l’ elemosina legale, e consiste nel donare ai bisognosi, a fine anno, una percentuale fissa dei propri averi, sia che essi siano denaro o altri tipi di proprietà, in ogni caso beni utilizzabili per scambi commerciali. Ovviamente, è esentato dal versare la “zakat” chi ha un reddito basso e chi possiede poco. Questa pratica, aiuta i credenti ad evitare l’ avarizia, ed ovviamente è utilissima per aiutare i bisognosi ai quali è destinata.
- Il digiuno (saum)
Nei pilastri dell’ Islàm, indica il precetto da compiere durante il mese di Ramadan. Dall’alba al tramonto i credenti si astengono dal cibo, dalle bevande, dai rapporti coniugali, dal fumare, ed evitano il cattivo comportamento in generale. Il digiuno ha lo scopo di autodisciplina e incita al buon comportamento.
- Il pellegrinaggio (hajj)
L’ “hajj” si esegue recandosi a Mecca con l’intenzione nel cuore di compiacere Allah e dev’essere compiuto, per chi ne ha la possibilità economica e fisica, almeno una volta nella vita. Durante l’hajj i fedeli indossano una veste fatta di un unico pezzo di stoffa non nuova di colore bianco senza cuciture e indossando soltanto calzature tipo sandalo o ciabatta.
Il mercato europeo dei cosiddetti prodotti halàl, ovvero “leciti” per il Musulmano, ha fatturato circa 20 miliardi di euro. Questo settore pare essere uno dei più promettenti a livello planetario, con un incremento annuo costante del 15%. La Francia e la piazza più fiorente per la vendita di cibo, farmaci e cosmetici halàl, anche se Gran Bretagna Belgio e Germania non hanno nulla da invidiare. E a livello globale si parla di guadagni costantemente in crescita che ormai sfiorano i 200 miliardi di dollari l’anno. Addirittura in alcune nazioni, in Francia per esempio, i giovani Musulmani hanno visto comparire sulle loro tavole pizza e lasagne halàl.
Il successo del cibo halàl merita di essere compreso un po’ meglio. Sempre più le organizzazioni Islàmiche richiedono che nei luoghi pubblici (mense, refezione scolastica, ospedali) sia possibile avere cibo halàl. Lo esigono come un’espressione della libertà di religione: “ognuno ha il diritto di mangiare secondo una sua religione”. Giusto, logico… ma da più parti si ritiene che l’impulso al consumo di cibi halàl rappresenti l’ultima frontiera dell’identità Islàmica in Occidente. Per un Musulmano che lavori in Italia o in Francia, la preghiera cinque volte al giorno è difficilmente praticabile, il velo alle donne non è sempre ammesso e anche il digiuno del Ramadàn risulta difficile da rispettare in considerazione dei ritmi lavorativi e delle differenze socio-culturali con i paesi Islàmici. Mangiare halàl è dunque un modo, fortunatamente non l’unico, per riconoscersi come credenti. Di questo approfittano i leaders Musulmani più intransigenti, che cercano di imporre la carne halàl per serrare i ranghi, per contarsi e sicuramente anche per autofinanziarsi. Tuttavia il Corano dice letteralmente: “La carne della gente del libro (Ebrei e Cristiani) è lecita per voi”(V, 5). Tutte le fatwe (sentenze) finora diffuse dicono che i Musulmani possono mangiare la carne macellata da Cristiani, perché la loro carne è halàl. Esiste anche una fatwa di un riformista egiziano, Muhammad Abduh, che già agli inizi del Novecento rendeva lecito il consumo di carne macellata dagli Ebrei, le cui regole di macellazione sono molto simili a quelle Islàmiche. Purtroppo il fondamentalismo, nel tentativo di aumentare lo strappo politico e culturale con l’Occidente, va in senso contrario e spinge i fedeli a enfatizzare ogni elemento distintivo della religione Islàmica, col solo scopo di fare pressioni in senso politico sui governi.
HARAM E HALÀL
Le regole alimentari dell’Islàm sono in piena sintonia con i divieti e le prescrizioni ebraiche, avendo in comune con queste la localizzazione geografica e climatica originaria e un importante background sociale di tipo nomadico. Per Ebrei e Musulmani gli animali si dividono in due categorie: quelli vietati per natura e quelli vietati per le modalità con cui sono morti o sono stati uccisi. Fra i primi va ricordato anzitutto il maiale, mammifero antagonista alimentare dell’uomo e poco adatto alla vita nomade in quanto dotato di arti corti inadeguati a spostamenti. La sua carne è facilmente contaminabile da parassiti e la sua difficile conservazione non ne fa certo un cibo adatto in ambiente caldo-umido. Come il maiale sono harām (proibiti) tutti gli animali che hanno i denti canini, ovvero i carnivori, cosiccòme gli uccelli rapaci che hanno gli artigli. Fra i pesci sono illeciti quelli senza pinne e squame.
Al secondo gruppo appartengono gli animali morti di morte naturale e quelli non macellati secondo il rito Islàmico. In base a questo, dapprima occorre pronunciare sulla vittima il nome di Dio, poi orientarla verso la Mecca. La macellazione halàl deve essere effettuata in locali e con utensili e personale separati e diversi da quelli impiegati per la macellazione ordinaria; il macellaio deve essere un Musulmano adulto, sano di mente e a conoscenza di tutti i precetti della religione Islàmica e sulla macellazione lecita; gli animali da uccidere devono essere animali leciti e devono poter essere mangiati da un Musulmano senza commettere peccato; gli animali devono essere vivi al momento dell’uccisione, che deve avvenire recidendo la trachea e l’esofago, mentre la colonna vertebrale non deve essere decisa e la testa dell’animale non deve essere staccata. L’uccisione deve essere fatta in una sola volta e il movimento del taglio dev’essere continuo e cessare quando il coltello viene sollevato dall’animale; il dissanguamento deve essere spontaneo e completo; infine la macellazione deve iniziare solo dopo accertata la morte dell’animale.
La macellazione Islàmica è legata a regole pertinenti sia al Corano sia alla Aid el adha (Festa del sacrificio), giorno in cui i Musulmani ricordano la storia di Abramo a cui Dio aveva ordinato di offrire il figlio Isacco in olocausto. La celebrazione prevede che ogni famiglia sacrifichi pubblicamente una capra e disponga della carne nel seguente modo: un terzo del sacrificio in beneficenza per sfamare i poveri, un terzo da consumare con amici e parenti e un ultimo terzo da assegnare a chi celebra il sacrificio. Il rito è senza dubbio cruento, agli occhi degli occidentali lo sgozzamento di un animale sulla pubblica via non può non sollevare turbamento e proteste da parte di animalisti e non. Nulla e nessuno può vietare a un Islàmico la propria professione di fede ma vista la particolare natura della cerimonia, la morale comune e le leggi sanitarie richiedono richiede che questa avvenga almeno in strutture adeguate e igienicamente idonee come i macelli pubblici. D’altronde, perfino in Arabia Saudita, dove al termine del pellegrinaggio alla Mecca vengono macellati milioni di capi ovini e bovini, le autorità impongono che il tutto avvenga all’interno dei mattatoi pubblici.
IL VINO E IL CORANO: PROIBITO E CANTATO
Un altro divieto alimentare dei Musulmani è quello che riguarda il vino e le bevande alcoliche. Di fatto il Corano contiene versetti che vanno dall’approvazione totale, nel periodo meccano, alla risoluta condanna nel periodo medinese. Il versetto 67 della sura XVI lo esalta: “E dei frutti delle palme e delle viti vi fate bevanda inebriante e buon alimento; e certo è ben questo un segno per la gente che sa ragionare”. Per contro il versetto 219 della sura II lo sconsiglia: “Ti domanderanno ancora del vino e del maysir (gioco d’azzardo). Rispondi: C’è peccato grave e ci sono vantaggi per gli uomini in ambo le cose: ma il peccato è più grande del vantaggio”. Ha prevalso il secondo, in base alla regola del diritto Islàmico dell’abrogato e dell’arrogante, per la quale se due versetti si contraddicono prevale quello più recente (le sure sono in genere numerate in ordine inverso alla cronologia).
Nel 1986 i consumi di bevande alcoliche nel mondo Islàmico si erano dimezzati. Dieci anni dopo, nel pieno dell’offensiva del terrorismo Islàmico, si era scesi a due terzi di litro a testa. Le ultime stime rivelano che il consumo medio è balzato a 1,8 litri. Indice di un recupero dell’identità laica che ha caratterizzato le società arabe dopo la nascita degli Stati nazionali sulle ceneri dell’Impero Turco-ottomano. Il 97% delle vendite di alcolici in Egitto riguarda la birra. Dei 125 milioni di litri di birra prodotti, 75 milioni sono di birra halàl e 50 milioni di birra alcolica. Il boom si ebbe nel 1998: con complessivi 56 milioni di litri, raddoppiando la produzione dell’anno precedente.
Nella laica Turchia il consumo di alcolici è 10 volte quello dell’Egitto a parità di numero di abitanti. Nel 2003 la produzione complessiva è stata di 928 milioni di litri, con un incremento del 9% rispetto all’anno precedente. Di questi circa 780 milioni sono di birra. Anche in Marocco la vendita di alcolici è cresciuta del 4,6% nel 2003, con la birra che rappresenta il 72% del mercato e il 44% del fatturato, in considerazione del fatto che costa poco rispetto al vino e superalcolici. L’altra novità è che la produzione di alcolici nei paesi Islàmici – come qualsiasi altra merce che deve competere in un mercato globalizzato – tende a migliorare sempre più sul piano della qualità. Il Coteaux de l’Atlas, il vino più prestigioso prodotto dall’azienda marocchina Les Cellier de Meknès (40 milioni di litri annui), ha ottenuto la medaglia d’argento dell’Unione degli enologi francesi nel 2004. Lo Chateau Tellagh, prodotto nella regione algerina di Medea dall’azienda statale Oncv (Ufficio Nazionale d’Impulso alla Viticoltura), ha vinto il Premio della giuria nella Esposizione vinicola di Montreal del 1998. In Tunisia, dove una legge di Stato regolamenta l’industria vinicola fin dal 1957, si producono vini di qualità come l’Imperial Magnus Rouge. D’altronde tutto il bacino mediterraneo, già millenni prima di Cristo, produceva vino e birra. Nell’aprile 2008 un articolo dell’Islàmologo integralista Youssuf al-Qaradawi in cui era scritto che “non c’è nulla di sbagliato nel consumare bevande che contengono una percentuale minima di alcol”, aveva fatto sperare alcuni in un’apertura, ma il teologo ha ben presto ribadito il precisato dal suo sito personale (www.quaradawi.net), che non è lecita nemmeno una goccia di bevande inebrianti.
L’alcol è sempre stato presente nel mondo arabo antico. Esiste addirittura un genere letterario, noto come khamryyat, traducibile in “odi bacchiche”, che annovera insigni poeti tra cui Abu Nuwàs nell’VIII secolo. Tramandato ai posteri come libertino, sodomita, ubriacone e poeta di corte, Nuwàs visse alla corte del Califfo delle “Mille e una notte” Harùn ar-Rashìd e di suo figlio al-Amìn.
“Se ci mescolassi luce, essa si mescolerebbe
con lui, e ne nascerebbero altre luci
e fulgori.
Circola quel vino tra i giovani, cui si piega
docile il destino, dando loro soltanto
le sorti da essi volute”.
Il vino è “profumo del mondo”:
“Un vino cui padre è l’acqua, e madre
la vigna, e nutrice la calura
meridiana bollente.
…..
Vino ebreo di lignaggio, Musulmano
di territorio, siro di esportazione,
iracheno di nascita.
E’ del paese dei Magi, ma ha lasciato
I suoi correligionari, per odio del fuoco
che presso di loro si attizza.”
Probabilmente il più celebre cantore del vino in poesia fu il matematico, astronomo, filosofo e poeta persiano Omar Kayyām (1048-1131). Le sue rubaiyyàt (quartine) da mille anni non cessano di sedurre l’umanità con la loro dolcezza, la loro gioia, la loro tristezza esistenziale e la loro inestinguibile sete di Assoluto.
Se aver puoi sol per te un pane di bianco frumento,
Due colme pinte di vino, un coscio d’agnello sugoso,
E qualcuna, dolce al cuore, in un paesaggio deserto:
Ecco un gaudio che non può ghermire alcun Sultano.
….
Nella sfera dei Cosmi, cui notte fonda niuno ha sondato,
V’è una coppa, offerta a turno, cui tutti è dato a bere.
Quando il tuo verrà, non gemere di tristezza.
Bevi quel vino in gioia, ch’è la tua volta di bere.
….
Donati a opere di Bene, segui la Legge divina,
Non negare al prossimo equa parte di tuo pane.
Non sparger l’altrui sangue, e rispetta l’altrui campo:
L’altro Mondo è tuo! Parola! – Per ora, versa il Vino!
Nel poema Il vino mistico, in cui il vino è inteso come il mezzo che conduce a Dio, il sufi Ibn al-Farid nel XII secolo esclamò: “Dicono: hai bevuto il peccato! Nient’affatto, ho bevuto ciò che sarebbe peccato abbandonare! (….) Non vi è vita in questo mondo per chi è sobrio, chi muore senza aver provato l’ebbrezza ha vissuto invano”. Il vino appartiene quindi alla storia dell’Islàm, non solo, ma anche alla letteratura araba e Islàmica ed è quindi solo il dilagare dell’estremismo Islàmico che lo ha trasformato nel massimo dei tabù.
IL RAMADÀN
Ramadàn è il nome del nonno mese del calendario lunare Islàmico, in cui il Musulmano pratica il digiuno, che è uno dei cinque pilastri dell’Islàm. Secondo la tradizione Islàmica Maometto lo ha definito così: “Vengono aperte le porte del Paradiso, e chiuse quelle del Fuoco, e i demoni vengono legati”. E ancora: “chi digiuna si rallegra quando rompe il digiuno, e si rallegrerà del digiuno fatto quando incontrerà il suo Signore”. Anche la pratica del digiuno è stata ereditata dagli Ebrei e dei Cristiani che popolavano la penisola arabica in epoca preIslàmica. Tant’è vero che inizialmente Maometto stabilì che si dovesse digiunare un giorno in più del digiuno degli Ebrei per lo Yom Kippur, il nono e il decimo giorno del mese di muharram (primo mese del calendario Islàmico). Tuttavia nel secondo anno dell’Egira fu stabilito il digiuno per l’intero mese di Ramadàn. Si tratta di un mese sacro perché, nella cosiddetta Notte del destino, vi fu rivelato il Corano. Il digiuno va osservato nelle ore diurne e consiste nell’astensione dal cibo, bevande, fumo e rapporti sessuali dall’alba al tramonto. Tutti i cinque sensi devono essere mortificati per atto di padronanza di se stessi e gesto di obbedienza a Dio: non si può dare al corpo né nutrimento né piacere. Di notte, invece, si può.
Nei paesi Islàmici l’interruzione del digiuno al crepuscolo e occasione di celebrazioni riunioni familiari. Il digiuno è inteso sia come disciplina spirituale – poiché l’uomo, obbedendo al volere di Dio, si avvicina a Lui e ne ottiene l’approvazione – sia come disciplina sociale, in quanto avvicina, almeno un mese all’anno, i ricchi ai poveri. Alla fine del digiuno si celebra una delle due grandi feste musulmane, il Id al-saghir. Le prescrizioni concernenti l’astinenza sono date dal Corano nella sura II, versetti 183-185: “Nelle notti del digiuno vi è stato permesso di accostarvi alle vostre donne; e se sono una veste per voi e voi siete una veste per loro. Allah sa come ingannava che voi stessi. Ha accettato il vostro pentimento li ha perdonati. Frequentatele dunque e ricercate quello che Allah vi ha concesso. Mangiate e bevete finché, all’alba, possiate distinguere il filo bianco del filo nero; quindi di giornate fino a sera. Ma non frequentatele se siete in ritiro nelle moschee. Ecco i limiti di Allah, non li sfiorate!”.
In una giornata tipica di Ramadàn il Musulmano si sveglia che è ancora buio. L’astinenza deve iniziare un quarto d’ora prima del normale appello alla preghiera dell’alba. Prima, bisogna fare due cose: mangiare per poter affrontare le ore del digiuno e pronunciare una dichiarazione di intenti che precede tutti i cinque appelli alla preghiera. Al tramonto, quando si sia in un paese Islàmico, l’astinenza viene interrotta dall’annuncio del muezzin. A Gerusalemme, l’iftar, “l’interruzione”, è annunciata dallo sparo di vecchio cannone inglese. A quel punto si usa mangiare di nuovo dei datteri e bere dell’acqua ma solo dopo un’altra breve preghiera. Nella notte il fedele e libero da ogni astinenza.
Nei paesi a prevalenza musulmana in molti tendono a cambiare gli orari della loro attività, ma mai a fermarle. I negozi per esempio, aprono e chiudono sfruttando la sera più che il giorno. Nei paesi dove i Musulmani sono immigrati, come in Italia, dato che il digiuno indebolisce, ci sono aziende che durante il Ramadàn modificano i turni di lavoro in modo da facilitare i dipendenti Islàmici per poter farli mangiare al crepuscolo.
Non tutti i credenti sono tenuti a digiunare ci sono parecchie eccezioni. Nel Corano si legge: “Iddio non imporrà a nessun’anima pesi più gravi di quelli che possa portare” (II, 286). Nella vita si inizia a partecipare all’astinenza con la pubertà. E qui viene spontaneo ricordare quanto accade talvolta nelle scuole italiane in cui si chiede da parte di associazioni Islàmiche o famiglie musulmane che i bambini possano digiunare. Ebbene, per quanto riguarda l’età della pubertà le varie scuole giuridiche Islàmiche differiscono: per gli shafiiti, gli hambaliti e gli hanafiti l’età è stabilita da 15 anni, per i malachiti a 18 anni. Malachiti sono ad esempio la gran parte degli algerini. Tra loro c’è Khalida Messaoudi, ministro della Comunicazione e della Cultura algerino, che in Una donna in piedi scrive: “più tardi quando ero al liceo e avrei dovuto praticare il digiuno, mia nonna me ne ha dispensato. Mi diceva, lei che non era mai andata a scuola, che se uno studia, per Dio il Ramadàn è lo studio.” Fra gli adulti sono dispensati i malati, chi è in viaggio, gli anziani che potrebbero correre rischi per la loro salute, i malati di mente. Le donne sono esentate se in gravidanza o in fase di allattamento è invece esplicitamente proibito fare astinenza durante il ciclo mestruale che durante il puerperio. Uomini e donne una volta ritrovata la salute o arrivati a destinazione, devono recuperare il mese o i giorni perduti.
Il Ramadàn è un mese di carità, quindi se si interrompe l’astinenza, ci si può riscattare offrendo un pasto a dei Musulmani bisognosi o donando l’equivalente in denaro. Ma si può anche scegliere di fare un’astinenza compensatoria che dura 60 giorni. Tuttavia l’astinenza rituale osservata nel mese di Ramadàn non ha alcun valore se non è accompagnata da una serie di gesti da compiere e di cattive azioni da evitare, come litigare, rimproverare, calunniare gli altri, mentire, concepire desideri che contravvengono ai precetti del Corano. Le opere buone, durante il mese di Ramadàn, vengono considerate doppiamente meritorie.
Secondo il Corano, durante il Ramadàn non si devono uccidere né esseri umani né animali. Il precetto è però stato trasgredito più volte dagli estremisti Islàmici, che hanno anzi trasformato il periodo del Ramadàn in un appuntamento con la vendetta e la morte come dimostrano i comunicati legati all’Islàm jihadista in corrispondenza del Ramadàn oppure gli attentati suicidi nel settembre 2008 in Algeria, Gerusalemme e Islàmabad.
PER UNA LETTURA NON DOGMATICA DELL’ISLÀM
La popolarità delle rivelazioni suscita scandalo. Accadde a Cristo crocifisso dai Romani (non sicuramente dagli Ebrei…) e fu così anche con Maometto sei secoli dopo, costretto a fuggire di notte dalla sua città per rifugiarsi a Medina e scampare così alle ire di chi lo considerava un pericoloso sobillatore, un rivoluzionario ingrato. Entrambi, Cristo e Maometto, sono stati portatori di un messaggio che era soprattutto una dichiarazione di guerra alle idee dominanti e allo stato di cose esistenti. Entrambi sostenevano di aver ricevuto mandato da Dio per ricondurre un popolo sulla retta via. Ed entrambi conobbero da subito un rifiuto pressoché totale, un fallimento annunciato. Eppure nel volgere di pochi anni “il primo Messia” e “l’ultimo dei Profeti” sono riusciti a convertire e a trasformare con incredibile efficacia le rispettive comunità d’appartenenza. I dodici apostoli di Cristo sono diventati due miliardi e i settanta seguaci di Maometto quasi altrettanti.
Considerato per molti secoli dall’Occidente cristiano un eretico e un impostore – quando non addirittura l’Anticristo – per il mondo arabo Maometto è sempre stato un modello di virtù e di comportamento. La singolare forza della sua personalità, sfugge ad ogni tentativo di univoca caratterizzazione e si impone nella storia combinando l’elemento mistico con quello politico e amministrativo.
Per una comprensione della storia più antica dell’Islàm, è necessario sapere qualcosa sulle condizioni di vita dell’Arabia prima della nascita di Maometto (Abū l-Qasīm Muḥammad ibn `Abd Allāh ibn `Abd al-Muţţalīb al-Hāshimī), avvenuta a Mecca il 26 aprile del 570 d.C. almeno secondo fonti storiche tradizionali. L’Arabia preIslàmica era divisa in due parti: una era l’“Arabia Felix” dei Romani, identificabile con le attuali regioni dello Yemen, dell’Hadramawt e dell’Oman terra fertile e ricca d’acqua; l’altra comprendeva lo sterminato deserto arabico, punteggiato di oasi e abitato dai nomadi beduini. La maggior parte degli abitanti dell’attuale Arabia Saudita apparteneva allora a tribù nomadi, per quanto non mancassero gruppi stanziali, soprattutto in piccoli centri, com’era allora Mecca. I nomadi si procacciavano sostentamento pascolando cammelli, pecore e capre, uniche attività consentite dalle contingenti – ora come allora – condizioni ambientali dell’entroterra: clima desertico, secco, con temperature quotidiane molto elevate, brusche escursioni termiche notturne e rare precipitazioni, generalmente scarse e imprevedibili. La parte della penisola arabica che si affaccia sul Mar Rosso gode da sempre di un clima migliore, le precipitazioni sono abbastanza regolari e le temperature sono più miti anche se l’umidità dell’aria raggiunge spesso il 100%. Dopo un intenso periodo di pioggia alcune aree si coprono ancora per qualche settimana di una lussureggiante vegetazione. Di questo vantaggio approfittavano nel VI° secolo alcune tribù nomadi che trasferivano le greggi in queste aree fino a quando la vegetazione si esauriva. In capo a qualche settimana però uomini e animali erano costretti a fare ritorno in oasi con un minimo di pozzi e arbusti disponibili tutto l’anno. Vi era una sorta di intesa sul territorio in cui una tribù aveva il diritto di pascolare, e più una tribù era potente più era facile per lei mantenere questo diritto con la forza; di conseguenza, quando una tribù diventava troppo debole, poteva fare appello a una tribù più forte per avere sostegno e protezione e relazioni di questo tipo erano comuni.
I nomadi arabi si dice avessero molti dèi, ma ciò non sembra aver avuto particolare significato per loro. Essi credevano fermamente che gli eventi principali della vita di un uomo fossero determinati da una forza impersonale chiamata Tempo o Destino. Come afferma il Corano: «E dicono: “Non esiste che questa nostra vita terrena: moriamo, viviamo, e solo ci stermina il Tempo! “» (Sura 45:24). La credenza più profonda degli arabi del tempo sembra essere stata un «umanesimo tribale», alimentato dalla forte tradizione della poesia. I poeti celebravano le imprese di singoli eroi, ma si riteneva che queste dipendessero dalle alte qualità presenti nell’ambiente tribale piuttosto che da qualche virtù personale. La maggior parte degli arabi credeva che proprio l’identità tribale rendesse la vita degna di essere vissuta. Esisteva inoltre quello che si potrebbe chiamare un codice etico, associato al sistema tribale, secondo il quale la tribù o clan nel suo insieme era considerato responsabile delle malefatte di uno dei suoi membri. Vigeva dunque la legge del taglione (ovvero la possibilità di infliggere al reo una pena uguale all’offesa causata), che portava spesso a lunghe e sanguinose faide. La coesione tribale e il welfare generale del gruppo era garantito anche dall’impegno del capotribù nel farsi carico dei membri più deboli della sua comunità.
Mecca godeva di una posizione piuttosto particolare. Non era un’oasi, ma vi era acqua sorgiva sufficiente per mantenere una piccola comunità stanziale. Questa si era raccolta attorno a un edificio sacro, la Ka’ba (letteralmente: cubo) che portava incastonata a 1 metro dal suolo, nell’angolo di Sud-Est, la cosiddetta «pietra nera» (al-hajar al-aswad) – sostanzialmente un meteorite – cui già in tempi preIslàmici erano attribuite proprietà divine. L’area attorno alla Ka’ba, detta Haram, era particolarmente sacra e non poteva ospitare alcuna attività diversa dalla preghiera. Un vasto territorio attorno alla Mecca aveva ugualmente carattere sacro e all’interno di quest’area tutte le faide tribali erano sospese. Non lontano dall’Haram si tenevano dunque importanti fiere annuali che diventavano pacifiche occasioni di raduno per tutte le tribù nomadi. Fu grazie a questa concomitanza tra fede e affari che la modesta (per estensione) città di Mecca era già ben prima della nascita di Maometto un importante centro commerciale. Nel sesto secolo d.C., le continue guerre tra l’impero bizantino e quello persiano impedivano l’uso delle vie carovaniere che, attraverso l’Iraq, collegavano il Mediterraneo con l’India e il Golfo Persico. I mercanti della Mecca avevano tratto vantaggio da questa situazione e la maggior parte del commercio di spezie, incenso, tessuti e merci preziose, passava sui dorsi dei loro cammelli, dallo Yemen via la Mecca sino a Gaza, Damasco e Aleppo. Lungo questa rotta i mercanti controllavano anche molte altre attività, escludendo i non-meccani dal traffico carovaniero. Ne avevano tratto, di conseguenza, notevole ricchezza ma i loro costumi morali erano peggiorati. La morale tradizionale della Mecca era stata quella delle tribù nomadi, ma non si era rivelata sempre adatta per una comunità dedita al commercio. I mercanti preferivano avere come soci d’affari membri di altri clan piuttosto che del proprio e spesso trascuravano i tradizionali doveri del capo clan di provvedere agli individui più poveri e più sfortunati del loro stesso gruppo.
Nel VI° secolo quasi tutti gli abitanti della Mecca appartenevano alla tribù dei Quraysh, divisa in una dozzina di clan che a volte si riunivano in gruppi di due o tre in contrasto tra loro. I comuni interessi commerciali, comunque, impedivano ogni scontro serio tra clan. Maometto apparteneva al clan degli Hashim, di cui era stato capo suo nonno. Il padre di Maometto, `Abd-Allah, mercante a sua volta, era morto a Medina sulla via del ritorno da un viaggio in Siria, quando la moglie Amina, era incinta. Il futuro Profeta dell’Islàm rimase precocemente orfano anche di madre che, nei suoi primissimi anni, l’aveva affidato a una balia appartenente a una tribù nomade. Quella di mandare a svezzare i figli tra i beduini era una situazione abbastanza comune a quel tempo in quanto la vita nel deserto era ritenuta più salubre per i bambini di Mecca. Dopo la morte di Amina, Maometto fu accudito per due anni dal nonno e quindi dallo zio che lo fece partecipe di alcuni viaggi d’affari in Siria e lo iniziò ai primi rudimenti del commercio. Durante uno di questi viaggi, una ricca vedova, Khadija, gli affidò l’incarico di sovrintendere ai suoi beni. Soddisfatta del modo in cui il giovane aveva ottemperato all’incombenza, Khadija gli si offrì in matrimonio ed egli accettò. Maometto non disponeva di capitali propri poiché non era permesso a una persona al di sotto di una certa età di ereditare alcunché dal padre e dal nonno (usanza che aveva la sua origine nell’ambiente nomadico, poiché ovviamente un minore non poteva accudire un gregge di cammelli). Ma dopo il matrimonio e grazie al capitale della moglie, Maometto poté iniziare a dedicarsi al commercio in proprio e a tempo pieno. Almeno fino a quando, all’età di circa quarant’anni, in una caverna del monte Hira, presso Mecca (dove aveva l’abitudine di ritirarsi per breve tempo ogni anno), fece una straordinaria esperienza spirituale che lo spinse a dedicare l’esistenza a far conoscere il Dio unico in un ambiente politeista come quello arabo.
A partire dal 610 Maometto si presentò nella sua città natale come profeta scelto da Dio per comunicare all’umanità l’ultima rivelazione, trasmessagli da Dio attraverso l’arcangelo Gabriele. Iniziò a predicare uno “scomodo” monoteismo e a condannare come immorali le statue collocate in onore delle varie divinità attorno alla Ka’ba. Esortava un profondo rinnovamento dei costumi a cominciare dalla indegnità dell’adulterio, fino alla consuetudine araba di seppellire vive le neonate in quanto fonte di costi e inadatte al lavoro mercantile o pastorale. Non contento, chiedeva il distacco dalle ricchezze e una vera giustizia sociale verso orfani, vedove e poveri. C’era di che infastidire seriamente i ricchi e arroganti abitanti di Mecca che misero in atto una serie di persecuzioni anche violente contro Maometto e i suoi seguaci. Nella notte tra il 15 e il 16 luglio del 622 il gruppo di “sovvertitori” dell’ordine e della morale imperante, fugge a Yathrib, 400 chilometri a nord di Mecca. Questo evento, l’Hijra (egìra, letteralmente migrazione) segna l’inizio del calendario Musulmano. Da quel momento Yatrib divenne Madīnat al-Nabī, “la città del Profeta”: Medina, in cui Maometto si trova nelle condizioni per realizzare il suo progetto religioso, sociale e politico. Comincia a organizzare la città e la convivenza sociale, si adopera per trasformare le norme dei beduini trasmesse dalla tradizione orale in una legislazione vera e propria.
Da Medina Maometto comincia l’espansione militare e politica e in 10 anni è protagonista di 19 guerre utilizzate per stringere nuove alleanze e per procurare mezzi economici e militari per la causa dell’Islàm. Nel 630 rientra a Mecca senza spargimento di sangue. Ma esige la distruzione degli idoli costruiti attorno alla Ka’ba. In breve tutta la penisola arabica si converte all’Islàm e chi si sottomette a Maometto lo riconosce come governante e al tempo stesso come profeta inviato da Dio. Ancora oggi all’interno del mondo musulmano si dibatte su quale sia il “vero Islàm”, se quello elaborato alla Mecca e caratterizzato da una forte impronta spirituale, oppure quello di Medina di natura spiccatamente sociale e politica.
IL DEBITO NON PAGATO CON L’ISLÀM
Quando non si possiede la dote di definire se stessi con distaccata onestà si ricorre a un termine di paragone. Nel peggiore dei casi non c’è di meglio che valersi di qualche antagonista. Il “diverso” è il miglior candidato ad essere il paradigma del “peggio”. Per questo gli storici e cronisti più viscidi e servili – che sono stati e sono la maggioranza – hanno dovuto inventarsi il contraltare alla nostra presunta civiltà: il volto “tirannico” per la Persia, quello “selvaggio” per i Celti, uno “infido” per Cartagine e uno “barbarico– per le culture germaniche e asiatiche. Oggi tocca all’Islàm, arabo o magrebino, integralista o riformista che sia. Il diverso – per religione, cultura, lingua, colore della pelle, abitudini alimentari o solo per taglio di capelli – è il soggetto ideale attorno al quale creare grotteschi fantasmi, paure irrazionali, sbigottimenti insensati. A dar ragione a chi vede nell’Islàm una minaccia anziché una risorsa, ci pensano quelle infelici fazioni di deficienti che usano la religione contro la stessa “parola di Dio” in cui si aggrovigliano. Almeno per mutuo tornaconto dovremmo ripercorrere la nostra storia comune, dotandoci di diverse e più adeguate chiavi di lettura. A cominciare dall’attualità di un processo storico antico di 13 secoli. Chi ama abbinare l’Islàm a questo o quel tiranno, alla miseria di questo o quell’emigrante, di questo o quell’esponente di un preteso fondamentalismo, finge di dimenticare quante terrificanti dittature abbia, anche di recente, saputo esprimere il “civile” Occidente, quanto disperato sia il volto di tanti nostri emigrati, quanta seduzione ancora suscitino ideologie di divisione, di odio e di morte nel vecchio continente.
A coloro che osannano alle leggi liberticide su cui il nostro governo basa il più ignobile e anticristiano dei consensi, va ricordato che il principio di totalità nel nazismo proveniva dalla “razza”. E lo Stato era il mezzo per realizzarne la purezza.
Spiacerà la mia analisi a Calderoli, a Borghezio, a Bossi, a Maroni, ai sindaci-sceriffi del nordest, al premier bountykiller e a quanti spingono a favore di una chiara restrizione dei diritti individuali e negano al “diverso” il rispetto della persona. Spiacerà a lor-s’ignori sapere quanto grande sia il debito contratto dall’Occidente nei confronti dell’Islàm e quanto i nostri antenati abbiano vissuto per secoli (e in pace) a contatto con una cultura, quella Islàmica, di altissimo profilo tecnologico e scientifico.
Il fascino esercitato sulle più vivaci menti della Cristianità e la dipendenza verso i dirimpettai mediterranei fu tale che, in campo medico, fisico, matematico, astronomico, astrologico, alchemico, filosofico e tessile l’Occidente non fu davvero per molti secoli più di una colonia culturale dell’Oriente Islàmico. Non m’importa ribadire la probabile origine arabo-spagnola della poesia rimata, né intrattenermi sull’influenza Islàmica nell’architettura o nel campo della decorazione (basti pensare all’arabesco o all’intarsio). Mi preme però sottolineare come buona parte della filosofia dell’antica Grecia sia stata recuperata proprio grazie all’azione di studiosi dell’Oriente Islàmico, anche se spesso non musulmani. Fu infatti grazie allo stimolo delle autorità omayyadi, o di quelle abbasidi, che nella cosmopolita Corte normanno-sveva e nella duecentesca Scuola di Toledo si tradussero in arabo o dall’arabo numerose opere greche, d’epoca classica e d’età ellenistica, occasione di partenza per la rinascente scienza europea che, in tal modo, poté sfruttare le speculazioni di Aristotele o di Tolomeo.
Ciò non significa che l’ambiente Islàmico fosse portatore solo di opere altrui e che i suoi studiosi non fossero in grado di produrre direttamente scienza. Per convincersene sarebbe sufficiente citare l’immenso contributo apportato alla medicina (la Scuola Salernitana annoverava non a caso un magister Abdela — ‘Abd Allah — fra i suoi quattro mitici fondatori), o il Canone di Avicenna (ibn’Sina), il Liber Continens di Razi (Rhazes) o il Liber Regius di ‘Ali Abbas al-Magiusi: tutti capisaldi della scienza medica occidentale fin al XVII secolo.
Si potrebbe ricordare come “algebra” derivi dall’arabo al-jabr (connessione, ordine) e per la parola “algoritmo” si sia debitori al matematico arabo al-Khwarizmi.
Un suo contemporaneo, al-Battani (Albatenius), calcolò con stupefacente precisione l’obliquità dell’eclittica, la durata dell’anno tropico e l’orbita solare, fornendo – a Copernico prima e a Galileo Galilei dopo – il retroterra scientifico da cui è scaturita la moderna astronomia.
Che dire poi del contributo Islàmico in campo scientifico, nella fisica (idraulica e ottica innanzi tutto), nell’alchimia — avanguardia della moderna chimica — e in molte altre discipline scientifiche…
Ma anche nel campo della cultura materiale l’Islàm si è saputo guadagnare non piccoli meriti. Se già il contatto con i musulmani insediati nel vecchio continente comportò un deciso miglioramento delle tecniche idrauliche, è grazie a loro che da secoli anche noi occidentali possiamo gustare arance, limoni, cedri, banane, riso, canna da zucchero, melanzane, carciofi e spinaci e, per reintroduzione, uva, olive, albicocche e meloni. Tutto ciò ha consentito di variare significativamente una dieta cui un gran numero di spezie ha dato poi ancor maggior sapidità: noce moscata, cannella, zucchero di canna, chiodi di garofano, zenzero, sesamo, cardamomo e zafferano.
L’impatto sulla nostra gastronomia fu tanto importante da farci riconoscere una tendenza generale all’esotismo culinario nell’Europa medievale, secondo un processo di acculturazione che influenzò stabilmente anche il nostro modo di stare e servire in tavola. Ziryab, un raffinato musicista approdato nel IX secolo alla corte omayyade di Cordova dalla rivale Baghdàd, prese infatti l’abitudine di servire cibi ai suoi commensali, da lui forniti di preziose posate, cominciando con calde zuppe di cereali e legumi, seguiti da piatti “forti” a base di carne o pesce, concludendo con portate di frutta e, dulcis in fundo, con sorbetti e paste a base di frutta secca e miele, secondo uno schema che non tarderà ad affermarsi negli ambienti più colti dell’Europa cristiana. Il tutto annaffiato da bevande versate in fini calici di cristallo, il cui processo di fabbricazione è attribuito al suo coetaneo ‘Abbas Firnàs.
L’impatto della lingua araba sul lessico di varie lingue europee è ancora evidente. Fondamentale per la lingua spagnola – a causa della protratta convivenza Islàmico-cristiana nella penisola iberica – ma per nulla trascurabile sul nostro idioma. Non parlo solo dei tanti arabismi del siciliano ma di quelli presenti nella nostra lingua nazionale che ospita non pochi e significativi termini d’origine araba e, in minor misura, persiana o turca.
Ammiraglio (amir al-bahr, comandante del mare); darsena e arsenale (dar as-sina’, fabbrica); caracca (harraqa, nave incendiaria); monsone (mawsim, stagione); sciabica (shabaka, rete) hanno intuitivamente a che fare col mare, da cui spesso arrivarono le incursioni di “saraceni” e “turchi”. Al debito agricolo e idraulico sono collegabili il carciofo (khurshuf), la melanzana (badingiàn), l’albicocca (al-barquq), lo zucchero (sukkar), il limone (in persiano limùn), l’arancia (narangh), il riso (ruzz), il latte cagliato (yogurt in turco), lo zafferano (z’afaràn), lo zibibbo (zabìb), il candito (qandi), il giulebbe (gulabh), il cotone (qutun), il caffè (in turco qahvè), la caraffa (qaràba), la tazza (tasa) o la giara (giarra).
Il lascito arabo nei dizionari scientifici e nella nomenclatura della strumentazione è altrettanto esteso. Da cifra e zero (sifr) al modo di tracciare i nostri numeri — definiti impropriamente “arabi” ma più correttamente mutuati dall’India —, da almanacco (al-manah, calendario), al già citato algoritmo, fino ad alchimia (al-kimya’), ad alcool (al-kohl, spirito), ad alcali (al-qali, sostanza basica), ad alambicco (alinbiq), ad atanòr (al-tannur, fornace) o a elisir (al-iksir, pietra filosofale), mentre zenit (samt, direzione), azimut (as-sumut, plurale di samt) e nadir (nazir, opposto di samt) ci introducono alla volta stellata. Se è chiara l’origine della mussolina (Mossul) o del damascato, in ragione di un protratto dominio Islàmico nel settore tessile – confermato da “ricamo” (raqm, disegno), “taffettà” (persiano. tafté, tessuto) o scialle, (persiano, shal) – meno palese è la genesi di altre parole, specialmente se si trovano fuori dal loro logico contesto, come per esempio “taccuino” (taqwìm, corretta disposizione).
Parole, solo semplici parole, che mostrano però quanto comuni siano certe conoscenze e quanto sia in errore chi pensi che il nostro (?) sapere di oggi sia il frutto di sforzi autarchici. La vitale saldatura fra civiltà Islàmica e civiltà occidentale si fece a partire già dalla fine del X° secolo, piaccia o meno ai nostri e ai loro integralisti.
L’Oriente culinario
Secondo la teoria anglosassone i confini dell’Oriente si estenderebbero dal Mediterraneo al Mar della Cina, abbracciando diverse zone prive di una comune radice culinaria. Una nozione meno schematica e più contemporanea di “Oriente” deve comprendere anche altri territori caratterizzati da un’alta omogeneità culturale, quali quelli della coltura del grano nella regione del Punjab fino alla barriera del Pamir in Asia Centrale, ampliandosi verso sud e sud-ovest fino allo Yemen e spingendosi all’Egitto e al Maghreb. A nord e nord-ovest la demarcazione è più difficile da tracciare, poiché la frontiera attraversa il Caucaso, la Grecia e i Balcani, tutte aree in cui sono palpabili le conseguenze culinarie della loro lunga storia.
All’interno di questi confini, esiste una base comune di alimenti e di preparazioni gastronomiche che trova la sua ragion d’essere nell’omogeneità climatica e geografica. Un po’ ovunque si apre lo stesso paesaggio semidesertico, interrotto da zone fertili, massicci poco elevati e oasi verdeggianti, dove le aree coltivate grazie all’irrigazione si alternano a zone di pascolo magro. In questo grande spazio, le differenze regionali non sono trascurabili. Ma se si confrontano le proposte di droghieri, trattori o ristoratori armeni, iraniani, libanesi, egiziani, greci, turchi, algerini ecc. affiora un’indiscutibile omogeneità. Del substrato comune emergono le spezie abbondanti, l’acqua di rose e i colori vivaci delle presentazioni, l’uso di frutta fresca e secca nella preparazione di piatti a base di carne o dolci, le cotture al burro chiarificato, la frittura in olio di pesci e pasticceria. Il gusto per lo zucchero è piuttosto universale, come anche quello per i condimenti di verdure in salamoia. Si apprezza, ma non esclusivamente, il pane schiacciato non lievitato e le focacce farcite, fatte di sottili sfoglie di pasta. E se esistono importanti differenze nella preferenza o disponibilità di prodotti cerealicoli di base (grano intero, farina, semola, bulgur, riso, orzo, miglio), le paste di grano (vermicelli, plombs, langue d’oiseau…) sono cucinate come i chicchi dei cereali. In questo Oriente culinario si fanno zuppe dense di carni, ortaggi e leguminose, accompagnate da pasta o cereali; si preparano stufati con salse piuttosto grasse, si schiaccia la carne per fare delle polpette, si farcisce il pollame, l’agnello, le frattaglie, gli ortaggi e persino la frutta. Sciroppi e confetture sono molto apprezzati, si offrono dessert di amido, zucchero e latte e si servono dolci fritti con miele e sciroppo, o cotti al forno con zucchero e frutta secca. Più o meno di recente, sono gli stessi alimenti americani (pomodoro, peperone, zucchina, fagiolo, patata, paprika) a imporsi. Ovunque domina il gusto per la carne di montone, lessa, arrosto, essiccata o candita e per i latticini. Cosa normale, in un comune paesaggio di colline fertili e zone semidesertiche che lascia spazio alla vita nomade al seguito delle greggi. L’influenza della pastorizia è una grande componente del gusto orientale.
Questo substrato comune si è costituito storicamente sulla base delle specie e dei prodotti diffusisi dal centro di espansione dell’agricoltura. In seguito ha integrato i contributi provenienti dalla periferia, attraverso l’espansione dei regni e degli imperi che ampliano i propri rapporti commerciali, diffondono i prodotti e i gusti e unificano ampi spazi. Due grandi espansioni hanno avuto un ruolo fondamentale: la creazione di un mondo iranizzato dagli Achemenidi tra il Mediterraneo e l’Indo e l’unificazione dell’Islam. Questi due fenomeni hanno contribuito a far accettare le specie e i prodotti giunti da est attraverso l’India, come lo zucchero, il riso e numerosi frutti e legumi.
L’importanza rivestita dalle specie indigene è tuttavia rimasta fondamentale. La loro origine si concentrava attorno a due zone principali, il cui aspetto è molto cambiato dalla nascita dell’agricoltura. I cereali (grano, farro, orzo, spelta, segale) crescevano in una fascia di praterie alberate che dal Giordano si estendeva verso la parte nord del bacino dell’Eufrate e discendeva lungo i monti Zagros verso la provincia di Fars. A nord di questa «Mezzaluna fertile», che attraversava una vasta foresta caduca intorno ai laghi Van e Ourmia, si trovava un’altra zona di praterie, che si estendeva dal Mar Nero verso l’Indo-Kush passando per le zone pedemontane a sud del Caucaso. Più a nord, una zona boschiva secca costeggiava i pendii del Caucaso. Da queste due zone ha origine la frutta fresca (albicocca, ciliegia, pera, mela, mela cotogna, melagrana, vite, fico, ribes, melone, mora) e la frutta secca (mandorla, noce, nocciola, pistacchio, castagna) della cucina orientale. Una localizzazione precisa sembra difficile da attribuire alle altre specie domesticate attorno a questo polo: piante aromatiche (aglio, cipolla, aneto, anice, asa fetida, carvi, cerfoglio, coriandolo, cumino, dragoncello, menta, origano, papavero, zafferano, sommacco, mostarda nera, fieno greco, rosa, cannabis), ortaggi e radici (barbabietola, carota, pastinaca, rapa, spinacio, cetriolo) o animali (montone, asino, bue, capra).
Potremmo situare il centro alimentare dell’Oriente nella zona a sud del Caucaso, esattamente dove nacquero le prime civiltà urbane 6000 anni fa. Questa regione oggi semidesertica che raggruppa la Turchia e l’Iran, 3000 anni fa era il regno di Urartu a nord dell’Assiria, prima di diventare il paese dei Medi ed essere infine incorporata all’Iran da Dario, andando a formare il regno d’Armenia poco prima dell’era cristiana, e tornare sotto l’Iran sassanide ecc. Prima zona a essere disboscata dagli agricoltori, la regione si è probabilmente desertificata nei primi millenni dell’agricoltura per assumere una fisionomia geoclimatica simile a quella attuale. Questo ha portato alla diffusione dell’irrigazione e ha favorito forse una migliore acclimatazione di alcune specie sulle nuove terre dissodate d’Europa copiosamente irrorate dalle piogge dell’Atlantico.
Prima che dall’Iran nasca, nel 550 a.C., il primo grande impero dell’’antichità, i confini di sovranità degli Stati rimanevano in ambito regionale. Le loro risorse alimentari erano pressoché le stesse, ad eccezione delle ricchezze specifiche o delle difficoltà locali di messa a coltura.
Situato alla periferia del centro d’espansione, l’Egitto sembra non aver mai avuto alcun ruolo nella creazione o diffusione del gusto in Oriente o nel Mediterraneo. Curioso destino per un paese tanto antico e prestigioso avere un’immagine culinaria globale quasi nulla. Ai nostri giorni, sotto l’Impero ottomano di cui era una provincia, sotto i Fatimidi che hanno lasciato la città del Cairo e un periodo di prosperità, sotto Bisanzio o Roma, sotto i Tolemei o le antiche dinastie, questo grande paese agricolo esportatore non viene mai menzionato come un paese dalla cucina rinomata. Tuttavia, l’arte e la decorazione funeraria sono ricche di dettagli della vita quotidiana che ritraggono scene di vita di coltivatori e pescatori, il lavoro dei cuochi, dei panettieri, dei birrai e vignaioli e offrono molte immagini di prodotti alimentari e banchetti.
Le tavolette d’argilla originarie della Bassa Mesopotamia (II millennio) sono i più antichi documenti culinari noti in tutto il mondo. I prodotti utilizzati in cucina erano di origine locale, dal momento che la Mesopotamia non importava derrate alimentari dall’estero. Al pari dell’Egitto, si faceva un grande consumo di pesce e maiale, ma meno di bestiame e prodotti più locali (datteri, olio d’oliva, crostacei, frutti di mare…). Le tavolette menzionano molte ricette (soprattutto preparazioni in brodo), alcune delle quali sono ricche di dettagli. Non sappiamo esattamente perché queste ricette siano state consegnate su queste tavolette, dal momento che i cuochi erano di certo analfabeti. È possibile che servissero per un uso rituale o come “pasti di offerta” alle divinità. Cercarvi un legame con la cucina praticata a Baghdad all’epoca del suo massimo splendore sarebbe un’operazione azzardata, poiché le principali caratteristiche che emergono dalla loro traduzione e interpretazione non ci portano in quella direzione. C’è una certa somiglianza di ingredienti, ma in numero più ridotto, con quelli usati 2500 anni più tardi. Tuttavia, queste ricette testimoniano già una tecnica culinaria elaborata. Per esempio, il fondo di cottura a base di acqua o birra, grasso e piante aromatiche, nel quale si cuoceva la carne prima di aggiungervi pollame o pezzi scelti. Oppure la bianchitura e brasatura preliminari (quindi cotture multiple) e l’addensamento del brodo (legatura?) con sangue o pasta sbriciolata. I pezzi di carne dovevano essere tagliati con il coltello per servire. Le ricette usavano generalmente una grande quantità di agliacei (aglio, cipolla, porro…), erbe e prodotti vegetali secchi, prodotti fermentati del latte o cereali.
Un millennio più tardi, le descrizioni assire ci riportano verso il centro culinario del Vicino Oriente, in una regione dove si beve forse meno birra rispetto all’Egitto e alla Bassa Mesopotamia e dove la vite e il vino hanno un ruolo importante nei rituali e nella vita quotidiana. Nella parte nord del corso dell’Eufrate, settantamila persone nel 879 a.C. furono invitate alla festa per la ricostruzione della città di Kalah vicino Ninive. Di questa festa che durerà dieci giorni e che testimonia l’importanza attribuita al banchetto nella regione, non viene detto nulla riguardo la cucina e i cuochi, ma alcune iscrizioni forniscono dettagli sulle impressionanti quantità di cibi e bevande ad essa consacrate. L’elenco riflette le disponibilità del posto: carne di montone soprattutto, pane e ceci, condimenti e carne salata, miele, gelatine di frutta, burro chiarificato e olio, poco pesce e latticini, abbondanza di uva e melagrane, uso di frutta secca e semi per i condimenti, uso abbondante di piante aromatiche fresche e secche della regione (in media 8 grammi al giorno per persona) e diecimila otri di vino.
Tre secoli più tardi, il nord della Mesopotamia diventerà una divisione amministrativa (satrapo) dell’Impero achemenide, che si estenderà dall’Asia Minore (Anatolia) all’Indo, compreso tutto il Levante, l’Egitto e il sud del Caucaso. L’Impero svilupperà il commercio in Asia, aprendosi alle influenze dell’Indo, la cui provincia occupata era un’importante fonte di guadagno. Non rimane alcuna testimonianza culinaria dell’epoca, eccetto un’iscrizione nel tempio di Ciro a Persepoli. Scoperto durante la campagna di Alessandro (nel 325 a.C.) e trasmesso da Polieno, l’elenco inciso nel bronzo (accanto ai testi di legge) enumerava i bisogni alimentari del palazzo. Si trattava per la maggior parte di ingredienti ancora oggi in uso nella cucina dell’Iran: grano, orzo, montone e agnello, bue, uccelli, pollame, selvaggina, latte e latticini, piante aromatiche, grassi di cottura, frutta secca ecc. Sulla lista’ figura in particolare la conserva di melagrana acida, lo zafferano, il cumino, l’aneto, il mosto d’uva, il succo di mela dolce, i ravanelli bolliti in salamoia, i capperi sotto sale «per le salse acide», gli oli di terebinto, acanto e mandorla dolce. Inoltre viene riportato che il re faceva distribuire alle sue truppe una considerevole quantità giornaliera di cereali e orzo, oltre all’olio di sesamo e aceto. Questa «lista di provviste» serviva per preparare piatti al contempo acidi (aceto, conserve, succo), dolci (concentrati di frutta) e aromatici (erbe e spezie). Lo zucchero e il miele non sono citati, ma a questo proposito Erodoto non lascia dubbi sulla propensione degli iraniani per il dolce: «Mangiano pochi piatti principali ma molti dolci, non tutti serviti nello stesso momento (poiché essi accompagnano i primi), per questo dicono che i greci, quando sono a tavola, si alzano ancora con la fame, perché dopo il pasto vero e proprio non si serve loro nulla che sia veramente degno di pregio; ma che se qualcosa di simile venisse loro servito, non finirebbero più di mangiare». Poiché essi consumano subito ciò che si presenta loro come dessert: dunque per i persiani il dessert non serviva per appagare l’appetito ma per «solleticare la gola».
La lista di cibi rinvenuta a Persepoli è piuttosto sudcaucasica; la cucina che ne deriva è vicina a quella apprezzata 1000 km più a nord, una cucina forse più distante dai gusti locali della Mesopotamia, dell’Egitto o anche dell’Indo, che ignoriamo quasi completamente, ad eccezione del gusto antico per le spezie e la frittura. Questi elementi sono evidentemente insufficienti per affermare che il primo impero iraniano ha diffuso ovunque un certo modello di gusto; essi dimostrano semplicemente che la capitale aveva la possibilità di scegliere le proprie fonti di approvvigionamento. Seppure con qualche compromesso riguardo al vino, di cui si faceva un consumo considerevole. Il palazzo ne acquistava cinquanta volte il volume di burro chiarificato e cento volte quello dell’olio di sesamo, ma quando il re risiedeva a Susa o a Babilonia (zone più calde, dove crescono i palmeti e non la vite), tale quantità era per metà vino di palma e per metà vino d’uva. Il Grande Re sapeva vivere. Ecco cosa scrive Parmenio ad Alessandro, dopo che questi gli aveva affidato l’incarico di occupare Damasco, e in quell’occasione si era impossessato degli effetti di Dario: «Ho trovato 329 concubine, musicisti del re, 46 uomini occupati unicamente a fare ghirlande e corone, 277 cuochi, 29 garzoni di cucina, 13 pasticceri, 17 uomini per la preparazione di bevande, 70 uomini incaricati di filtrare il vino, 40 profumieri».
Le iscrizioni di Kalah e Persepoli non sono le prime testimonianze del consumo di vino. Esso forse è antico quanto la coltivazione della vite iniziata 6000 anni fa in un’area di crescita spontanea che va dal Mar Nero al Khorasan, costeggiando il sud del Caucaso e del Mar Caspio’°. I magnifici rython, coppe fatte di corno, o raffiguranti un toro, sono molto numerosi nelle collezioni dei musei. In Iran, i più antichi attestano l’uso del vino almeno 3000 anni fa. La libagione all’epoca era un atto sacrificale attraverso il quale si nutrivano gli dei: la forma di queste coppe mostra che il vino era usato come sostituto del sangue versato con il sacrificio di un toro. Il banchetto ben innaffiato dal vino non aveva quindi solo una componente di piacere, era anche una necessità culturale. Quest’antica pratica affondava le radici in un passato indoeuropeo antico almeno quanto i Luviti e gli Ittiti (inizio del II millennio a.C.). In queste due lingue indoeuropee, infatti, il termine che designava il sacrificio era legato alla libagione. Ma nei rituali la libagione non sostituiva l’offerta. Dal sacrificio dell’animale si sperava in un effetto magico, si tentava di trasferire l’impurità dell’uomo sull’’animale sacrificato. Il banchetto serviva per offrire un pasto agli dei, i quali dovevano essere nutriti dagli uomini. Gli assistenti vi prendevano parte e gli dei erano nutriti da una libagione di sangue, il liquido che racchiude la vita e l’anima di un essere. La libagione si effettuava versando il liquido (dapprima sangue dell’animale, in seguito vino) in un buco praticato nel terreno. Bisogna dunque tenere a mente questa tradizione quando si leggono i commenti degli autori greci sull’eccesso di vino consueto tra i persiani achemenidi. In particolare quanto detto da Erodoto:
«Per il vino i Persiani hanno una vera passione. A loro è vietato vomitare e urinare di fronte ad altri; e rispettano accuratamente questa norma, ma hanno l’abitudine di discutere le questioni più serie in stato di ubriachezza; le decisioni eventualmente prese vengono riproposte il giorno seguente, da sobri, dal padrone della casa in cui si trovano a discutere».
Questa abitudine era ancora in uso mille anni più tardi nell’Iran dei Sassanidi. Gli stessi autori greci hanno inoltre sottolineato, nelle descrizioni degli usi e dei costumi iraniani, i fasti e le ricchezze dei banchetti, il piacere di vivere e l’amore per le donne. Ateneo fa numerosi riferimenti in proposito ed Erodoto pensa che gli iraniani abbiano preso gusto ai piaceri in quel paese della cuccagna che era la Lidia (sudovest dell’Anatolia) in seguito alla vittoria su Creso nel 540 a.C.
Dopo le conquiste di Alessandro, e l’intermezzo dei Seleucidi e dei Parti, i Sassanidi (224-642 d.C.) ricostruirono l’antico impero iraniano dalla Mesopotamia Nell’XI secolo, quando furono scritte le cronache dei re di questa dinastia, sappiamo che in Iran ancora si praticava lo hazm, un banchetto rituale durante il quale si facevano libagioni di vino a suon di musica. Il banchetto durava tre giorni nella forma più solenne e veniva organizzato in occasione di avvenimenti importanti (partenza per la guerra, per esempio) o di feste annuali (il nuovo anno tra le altre). In quest’occasione a palazzo si beveva il «vino reale», servito in rhyton d’oro, d’argento o di ceramica. Il vino era allora chiaramente considerato il sostituto del sangue del sacrificio in un rito esplicitamente legato alla tradizione religiosa dei Zoroastriani.
Probabilmente il vino non era riservato ai soli uomini né esclusivo dei rituali. Alcuni pezzi di vasellame suggeriscono la presenza al banchetto di danzatrici e persino di coppie. Il vino non era neppure riservato solo ai principi. Al-Taalibi riporta in proposito un aneddoto sul regno di Bahrúm V (420-438): una volta che il re «fu saldamente insediato al potere, che ebbe distribuito i governi e si fu liberato degli affari, si abbandonò al piacere di incontri intimi e alla compagnia delle donne, si lasciò andare alle passioni della giovinezza e sommò l’ebbrezza del potere a quella del vino». Un giorno gli presentarono un resoconto sui discorsi del popolo, il quale mormorava che il re non pensava che a bere e ad abbandonarsi ai piaceri e alle orge. Egli allora scrisse questa nota: «È il costume dei re quando regna la pace e i sudditi vivono nell’abbondanza». Lo stesso re, volendo per i suoi sudditi ciò che desiderava per se stesso, si accollò le spese destinate al divertimento e alle libagioni del popolo. Poiché più nessuno lavorava, dovette far proclamare un’ordinanza: «Guadagnatevi da vivere dal sorgere dell’aurora fino a mezzodì, e abbandonatevi poi al piacere del bere in società».
Il lusso dei Sassanidi ha forse superato quanto allora era conosciuto in Medio Oriente. E non furono gli ultimi re ad essere meno sfarzosi: gli storici arabi raccontano che oltrepassato il Tigri e presa Ctesifone nel 637, gli Arabi si fossero impadroniti di un bottino straordinario. Essi distrussero i palazzi più lussuosi, mentre il re Asgard fuggiva con la sua corte «e mille cuochi al seguito…»“. La “Storia dei Re di Persia” di Al-Taalibi fornisce alcune interessanti indicazioni che lasciano immaginare le capacità di quei numerosi servitori. Scritto in arabo nell’’entourage (e forse su richiesta) di Mahmud de Ghazni all’inizio dell’XI secolo, in un contesto culturale fortemente iranizzato, questo testo cita diversi piatti serviti alla corte di Balash (484-488), tra cui «il piatto del re» che consisteva in carne calda e fredda, carne in gelatina, carne all’aceto, pesce in gelatina, carne con riso, pollame marinato, foglie farcite, purea di datteri allo zucchero candito, o ancora «il piatto dei Dihqans», fatto di carne di montone salata, a fette con succo di melagrana e uova cotte.
Al-Taalibi riporta inoltre un testo che ritroviamo con alcune varianti in numerosi manoscritti e che sembra una sorta di gioco di società per testare le conoscenze dei partecipanti in materia di buon gusto. E un gioco (probabilmente immaginario) di domande e risposte tra il re — Khosro I (531-579) o Khosro II (590-628), a seconda delle versioni — e il suo servitore «dai gusti raffinati» sulle cose migliori della vita. Risposta del paggio riguardo «l’alimento più squisito tra i migliori»: il midollo e il tuorlo d’uovo. Ma il gioco è fatto per durare e l’elenco delle domande è piuttosto lungo. Esso ci porta a conoscenza delle seguenti preparazioni:
- agnello da latte di due mesi servito con latticello bollito e addensato e una sorta di semola fermentata
- petto di manzo grasso cotto nel brodo agro, servito con zucchero e zucchero candito;
- pollame arrosto dopo essere stato marinato in salamoia e, in particolare il galletto domestico nutrito con semi di canapa, semola d’orzo e olio d’oliva;
- numerosi piatti di carne fredda che nelle diverse versioni del testo e traduzioni assumono un aspetto un po’ confuso, ma dalle quali si evince l’esistenza di una categoria più ampia che comprendeva i piatti di carne fredda che potevano essere di manzo, asino, cervo, cinghiale, giovane camoscio, vitello, bufalo, asino selvatico, maiale domestico. La carne migliore per questi piatti freddi era la carne di vitello nutrito con trifoglio e orzo, preparata con aceto e ben condita. Gli scarti servivano per fare una sorta di stufato condito con aceto freddo. Esistevano anche carni marinate servite come aperitivo (coniglio, uccelli, pollame…), la cui carne tagliata sottile era messa a marinare cruda nell’aceto, o talvolta passata rapidamente sul fuoco. Al-Taalibi ci dice che «la migliore gelatina» era quella delle carni delle giovani gazzelle, «tenere, tagliate a fette lunghe e sottili, marinate con aceto, mostarda, salamoia, aneto, aglio, carvi e cumino». È probabile che questi piatti freddi tutti più o meno a base di aceto — fossero anche gelatinosi, e che questa consistenza fosse molto apprezzata. In effetti, nella categoria dei piatti freddi presente nel suo trattato, Ibn Butlan fa le seguenti precisazioni: «A base di zampetto di bestiame sono migliori di quelli fatti di pesce, carne tenera e bianca e carne di mucca. I cuochi utilizzano l’aceto per fare una certa specie di gelatina con lazzeruola, fecola e zampetto di capretto da latte». Aggiunge che si poteva renderli più buoni unendovi del vino invecchiato e profumato;
- diversi spuntini e stuzzichini salati serviti con il vino: pane freddo ripieno di macinato di carne arrosto con aceto;
- Ceci freschi con grasso d’otarda o di cervo fritto in olio di noci, pistacchi bagnati in salamoia e arrostiti, frutta secca… Ma, aggiungeva il paggio, «con i semi di canapa di Nisahpur che sono fritti nel grasso di capra di montagna, nessuna frutta secca regge il confronto, perché è buona da mangiare, profumata in bocca, molto leggera per lo stomaco ed eccellente anche per altro uso»
- moltissimi dolci e dolciumi: lazen’àg (dolce tagliato a losanghe con zucchero, pasta di mandorle, olio di sesamo, pistacchi schiacciati), ftiloîtd’àg (amido, zucchero o miele), gelatina di mela e di mela cotogna, confetture varie (cetriolo, zenzero, mirabolano, noce, limone). Ma tra i migliori dessert figurava: «la pasta fatta di farina di riso, latte fresco, grasso di gazzella e zucchero candito […], il dolce di pasta di noci preparato con olio di mandorle e sciroppo […], la polpa di cocco fresca con zucchero cristallizzato» o ancora «chicchi di melagrana dolce e melagrana acida con acqua di rose».
- Dopo i dolci il re e il paggio proseguono con la scelta dei vini migliori.
Questo semplice gioco di domande e risposte è ricco di insegnamenti: per esempio, ci fa sapere che il sapore agrodolce era ricercato (piatto di manzo caldo), che si preparava il brodo di cottura, che si facevano foglie farcite e carne cotta con il riso e che si usavano condimenti fermentati. Inoltre, potremo notare un uso consistente di aceto da mettere in relazione con l’abbondanza di vino e l’esistenza di numerosi piatti a base di carne fredda cotta in aceto, destinati ad accompagnare il nettare insieme ad altri stuzzichini salati. Mille anni dopo, l’impressionante quantità di dolciumi conferma le osservazioni di Erodoto e colloca indiscutibilmente l’Iran sulla via delle dolcezze orientali. Si ricordi, infine, accanto ai piaceri del vino l’uso dei profumi e della cannabis.
La vittoria definitiva degli Arabi sull’Impero dell’Iran si compie nel 642. Gli eserciti del Profeta controllano tutta la penisola araba, la Siria, la Palestina e l’Egitto. L’espansione continua, mentre il Califfato degli Omayyadi si trasferisce da Medina a Damasco. Verso nord, Costantinopoli resiste e si concede una tregua di otto secoli. Verso Occidente, gli eserciti attraversano lo stretto di Gibilterra nel 711, risalgono fino a Poitiers e valicano i Pirenei solo nel 759. Verso est il Sind, al confine con l’ex impero sassanide, è occupato nel 712, mentre l’avanzata prosegue contemporaneamente in Asia Centrale, fermata infine dai Cinesi a Talas nel 751.
In poco più di un secolo si è dunque compiuto uno dei più straordinari sconvolgimenti geostrategici. Dopo oltre mille anni un confine fluttuante separava il Levante dall’insieme mediterraneo-orientale, a seconda delle vittorie e delle sconfitte dei Greci, Iraniani, Romani o Bizantini. Con le conquiste arabe, l’immenso insieme geografico che si estendeva dall’India alla Spagna viene unificato dall’Islam. Questo nuovo Oriente favorisce la circolazione e la migrazione di uomini, piante, tecniche di produzione e gusti culinari.
Da 2000 o 3000 anni, l’India svolgeva il ruolo di grande giardino di acclimatazione per le specie alimentari originarie dell’’Africa (sesamo, sorgo, miglio, fagiolo dall’occhio, tamarindo, anguria…) o del Sudest asiatico (riso, zucchero, noce di cocco, banane, citrus), specie che vanno ad aggiungersi a una ricchezza naturale di ortaggi e leguminose indigene. L’Iran era il serbatoio delle specie indiane o acclimatate in India. Il confine tra Iraniani e Romani viene cancellato dalle conquiste arabe, e si assiste a una progressiva diffusione della coltura del riso, della canna da zucchero, della banana, della melanzana, degli spinaci, del limone e dell’anguria attraverso il Maghreb e verso la Penisola iberica. Probabilmente tale diffusione va di pari passo con la crescita sulle coste mediterranee della domanda di altri prodotti già noti ma generalmente più apprezzati nel Vicino Oriente, in particolare le spezie.
L’agricoltura non era di certo il punto di forza delle tribù di beduini che dominano tutti questi territori: il più delle volte essi lasciano ragionevolmente al potere le autorità civili del posto e la libertà religiosa agli ebrei e ai cristiani. L’esiguo numero degli occupanti, d’altra parte, non avrebbe permesso loro di amministrare in prima persona quel vasto e nuovo impero. Il loro potere si esercita piuttosto attraverso la conversione e il clientelismo delle élites locali, che favorisce un vasto movimento di popolazioni al servizio dei nuovi padroni in tutta l’area conquistata. In questo contesto si diffondono verso Occidente le loro tecniche di irrigazione e di giardinaggio già sviluppate nelle zone semiaride dell’Asia Centrale e del Medio Oriente. Non solo penetrano in Occidente nuove specie, ma l’intera area conosce una differenziazione e un aumento della coltivazione di frutta, ortaggi e leguminose.
Tra le principali novità, la coltura del riso, senza dubbio nota agli Iraniani da oltre mille anni — almeno ai margini orientali e forse in Battriana — si estende e si sviluppa in Mesopotamia, nel sud della regione caspica, in Anatolia (Mar Nero e costa meridionale), a Fergana, ma anche nello Yemen, nella valle del Nilo, nel Fayum, nel sud del Marocco, in Sicilia e in Spagna a partire dall’XI secolo (Valencia e Maiorca). Prima del 1500 la coltura del riso si è estesa anche al di fuori del mondo islamico: in Italia, sulla costa portoghese, a sud di Tolosa e a nord-ovest del Mar Caspio.
Anche il sorgo si diffonde nello stesso periodo: si mangiava lessato, tipo couscous, era presente nelle zuppe e nei dolci, e la sua farina veniva mischiata a quella di grano per il pane delle classi povere. Quanto al couscous, ne giunge notizia solo dopo la conquista araba. Da questo si è potuto dedurre che la presenza nel Maghreb del grano duro (indispensabile alla produzione del couscous) fu il risultato di una diffusione araba dalla terra di origine al sud-est del Mediterraneo. È comunque certo che il grano duro – una mutazione del grano selvatico – era da tempo conosciuto e coltivato su entrambe le coste del Mediterraneo.
È la canna da zucchero, insieme al riso, a conoscere Io sviluppo più significativo. La conoscenza dello zucchero in Occidente era antica, poiché gli eserciti di Alessandro nel IV secolo a.C. scoprirono la canna sull’Indo (la famosa «canna al miele»). Lo zucchero era importato a Roma almeno dal I secolo a.C. Gli Arabi diedero alla coltura della canna da zucchero una grande diffusione sulle terre dell’antico impero sassanide, dove era certamente presente prima del loro arrivo. In questo modo cominciarono a riscuotere un dazio sullo zucchero in Mesopotamia al tempo del califfo Omar (634-644). Nell’XI secolo, questa coltura era già comune dal Sind all’Africa orientale e dall’Egitto alla Spagna.
Il cedro era coltivato dagli iraniani e conosciuto nel Mediterraneo prima dell’avvento dell’Islam (Sardegna, Napoli, Spagna), ma non è altrettanto certo che altre varietà di citrus fossero coltivate a est dell’’India prima delle conquiste arabe. Ad ogni modo, non esistono testi arabi che ne menzionano la coltivazione prima dell’inizio dell’XI secolo, quando l’arancio amaro e il limone diventano poco a poco comuni. L’introduzione dell’arancia dolce, del bergamotto e del mandarino è probabilmente più tardiva.
La melanzana e gli spinaci trovati in Iran sono anch’essi ampiamente diffusi tra il IX e l’XI secolo. Altre specie, come la banana, la noce di cocco o il mango, conosceranno un successo maggiore nelle zone tropicali calde dell’Africa o dell’America rispetto al Mediterraneo, pur essendo la loro scoperta contemporanea. Queste piante penetreranno molto lentamente in Europa a causa dei rapporti conflittuali che dividevano il mondo cristiano e l’Islam, tanto che i progressi agricoli arabi furono talvolta distrutti dalle riconquiste cristiane. Bisognerà attendere il XVI secolo perché Io zucchero, il riso e i nuovi ortaggi entrino poco a poco nelle cucine della Francia e dell’Europa del nord.
A cura di
Sergio Grasso Antropologo alimentare e critico